Categoria: memoria

  • Un “nuovo” tipo di cellula abita nel nostro cervello (e ci da una grossa mano)

    La foto che vedete è quello che si può osservare al microscopio a fluorescenza quando alcune cellule del nostro cervello vengono “marcate” (tramite proteine che si legano alle cellule e le rendono appunto fluorescenti). Attorno ai molti neuroni che possediamo c’è una fitta rete di cellule cosiddette di sostegno, le cellule gliali (nella foto ogni punto viola rappresenta il nucleo di queste cellule), che hanno il compito di alimentare i neuroni e di pulire lo spazio accanto a loro. Considerate che le cellule gliali sono fondamentali per il cervello tanto che numericamente sono di molto maggiori al numero dei neuroni stessi. Le cellule gliali più importanti, fluorescenti nella foto, prendono il nome di astrociti (data la loro forma stellata) ed è di questi giorni la scoperta di un nuovo tipo di cellula gliale, chiamata astrocita glutammatergico. Apparentemente niente di che ma considerate che generalmente che i neuroni comunicano tra loro attraverso le sinapsi mentre la glia non utilizza questo tipo di segnalazione. La trasmissione sinaptica avviene quando un neurone è eccitato elettricamente e rilascia una sostanza chimica, chiamata neurotrasmettitore, nello spazio tra sé e un altro neurone, che porta all’attivazione del secondo neurone. Fino ad oggi si riteneva che questa capacità fosse esclusiva dei neuroni e che le cellule gliali si limitassero a passare informazioni da un astrocita all’altro senza poter comunicare direttamente coi neuroni.

    La ricerca pubblicata su Nature, in cui l’Italia gioca un ruolo da protagonista, illustra come questi astrociti glutammatergici sono attivamente in grado di mettere in circolo il neurotrasmettitore glutammato (principale neurotrasmettitore eccitatorio del nostro cervello) posizionandosi a metà tra le cellule gliali e le cellule neuronali, a rappresentare una terza categoria di cellule necessaria al buon funzionamento del cervello. Gli astrociti glutammatergici influenzano l’attività neuronale, la neurotrasmissione e la plasticità sinaptica in importanti circuiti cerebrali quali il circuito cortico-ippocampale e il sistema dopaminergico nigrostriatale, che oltre i tecnicismi hanno un ruolo centrale nei processi di apprendimento/memoria, controllo del movimento e insorgenza di crisi epilettiche. In particolare gli astrociti glutammatergici del sistema dopaminergico nigrostriatale (che regola il movimento) saranno di grande aiuto per comprendere i meccanismi che alterano questo sistema e che portano a malattie come il morbo di Parkinson

    Le cellule scoperte regolano la forza della comunicazione tra i neuroni. In particolare, gli astrociti glutammatergici sembrano essenziali per una forma di plasticità chiamata potenziamento a lungo termine, che è alla base dei processi di apprendimento. Interferendo infatti con la loro funzione, si ha un danneggiamento della memoria.

    L’identificazione di questa nuova tipologia di cellule cerebrali con caratteristiche intermedie tra astrociti e neuroni risolve una storica controversia nelle neuroscienze e chiarisce ancora una volta come la componente cellulare del nostro cervello sia “perfettamente” progettata per massimizzare le nostre capacità cognitive.

  • Sono un distratto cronico o ho l’ADHD? Vademecum per adulti

    Sei solito tagliare le etichette dai tuoi vestiti? Rimpiangi conversazioni passate? Ti distrai facilmente mentre qualcuno sta parlando? Tendi ad iper-concentrarti mentre lavori a un progetto particolare? Hai davvero tanti hobby? Sogni ad occhi aperti? Dimentichi le cose?

    Non è una ricetta perfetta ma se hai risposto sempre si potresti avere un disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Sui social l’hashtag #adhd ha ricevuto più di 17 miliardi di visualizzazioni fino ad oggi. Molti presentano giovani che descrivono i loro sintomi specifici, come la sensibilità a piccoli fastidi sensoriali (come le etichette dei vestiti). Dopo aver visto questi video, molte persone a cui non era stata diagnosticata l’ADHD da bambini potrebbero chiedersi se si qualificherebbero come adulti.

    Come con la maggior parte delle condizioni psichiatriche, per l’ADHD i sintomi possono variare nel tipo e nella gravità. E molti di loro “sono comportamenti che tutti sperimentano prima o poi”, ha detto Joel Nigg, professore di psichiatria alla Oregon Health & Science University. La chiave per diagnosticare la condizione, tuttavia, è “determinare che è grave, è estremo” e sta interferendo con la vita delle persone. È anche fondamentale che i sintomi siano presenti fin dall’infanzia.

    Perché l’ADHD spesso non viene diagnosticata negli adulti? Circa il 4% degli adulti nel mondo occidentale ha sintomi sufficienti per qualificarsi per l’ADHD, ma si stima che solo uno su 10 di loro venga diagnosticato e curato. Uno dei motivi della mancanza di diagnosi negli adulti è che quando le persone pensano all’ADHD, spesso immaginano un ragazzo che non riesce a stare fermo ed è dirompente in classe, ma quei sintomi iperattivi stereotipati sono presenti solo nel 5% dei casi adulti.

    Invece, sintomi come dimenticanze, problemi di concentrazione, problemi di organizzazione e procrastinazione sono più comuni negli adulti. Come se non bastasse l’ADHD può anche essere diagnosticata erroneamente come un’altra condizione psichiatrica. Ad esempio, è comune per le persone con ADHD avere problemi con la regolazione delle emozioni; le persone possono arrabbiarsi rapidamente o avere sbalzi d’umore drammatici. Possono anche verificarsi eccessiva preoccupazione e ansia. Di conseguenza, a molti adulti potrebbe essere stata diagnosticata la depressione o l’ansia quando il problema alla radice è in realtà l’ADHD.

    Come si diagnostica l’ADHD negli adulti? Ci sono tre domande principali che uno psicologo esaminerà per determinare se hai una normale disattenzione o dimenticanza o l’ADHD: Quanti sintomi hai? Li hai avuti fin dall’infanzia? Influenzano più aree della tua vita? Una persona deve avere cinque dei nove sintomi elencati nel manuale diagnostico (DSM) per qualificarsi per l’ADHD. Questi sintomi rientrano generalmente in tre categorie: problemi di produttività o prestazioni (procrastinare il lavoro o non riuscire a finire le faccende); memoria (spesso perdere il telefono o le chiavi o dimenticare di prendere il latte mentre si torna a casa); e organizzazione degli oggetti e del tempo (avere la casa ingombra o essere sempre in ritardo). Questi sintomi devono influenzare negativamente alcune aree della vita, come il lavoro, la casa e le relazioni. Se la tua casa è un disastro, ma hai successo sul lavoro e la tua vita personale è ricca e appagante, probabilmente non ti qualificheresti per una diagnosi.

    I sintomi devono anche essere presenti da prima che tu avessi 12 anni. Agli occhi della maggior parte dei medici, l’ADHD è un disturbo del neurosviluppo, nel senso che è iniziato quando il bambino (e il suo cervello) era giovane. Molte persone non riconoscono che qualcosa non va fino a quando le esigenze e le responsabilità dell’età adulta non si sommano e i sistemi che hanno utilizzato iniziano a fallire.

    Quali opzioni sono disponibili se ti viene diagnosticata? La buona notizia è che l’ADHD è abbastanza facile da trattare, ad esempio utilizzando farmaci stimolanti, efficaci nell’aiutare le persone a sfruttare la loro attenzione. Questi farmaci possono aiutare le persone a concentrarsi senza molti degli spiacevoli effetti collaterali, come disturbi del sonno o diminuzione dell’appetito. Il vero supporto però è quello fornito dalla terapia che aiuta le persone a capire come l’ADHD influenza la loro vita quotidiana e fornisce loro strategie compensatorie.

    Indipendentemente dal piano di trattamento raccomandato, è importante prendere certi sintomi sul serio. Se non trattate, le persone con questa condizione corrono svariati rischi su moltissimi aspetti della loro quotidianità.

  • la forgotten baby syndrome ovvero perchè l’impensabile può accadere a tutti noi

    Forgotten Baby Syndrome (FBS), così viene definito il fenomeno in cui i bambini vengono “dimenticati” all’interno di un veicolo parcheggiato. Si tratta di un fenomeno in crescita costante con importanti ripercussioni per il genitore, per la famiglia e per la società. Proprio in questi giorni la cronaca riporta un caso tragico accaduto a Roma dove una bimba di 14 mesi è morta in auto.

    Ognuno di noi prima o poi si è posto la domanda: “come può accadere?!”. Le ricerche scientifiche sul tema sono molto limitate e ancor più raramente vengono analizzate le circostanze in cui tali decessi si verificano ma è bene chiarire subito che nella maggior parte dei casi questi episodi coinvolgono soggetti adulti che hanno funzionalità psichiche e cognitive perfettamente integre per cui le dinamiche che portano a dimenticarsi o ad essere inconsapevoli di aver lasciato i bambini in auto appaiono incomprensibili. Anzi, se si guarda alle caratteristiche dei singoli episodi ci si trova, quasi sempre, di fronte a genitori amorevoli che non hanno dato mai segni di instabilità o di negligenza.

    Una delle ipotesi maggiormente accreditate indica che i casi di morte di minori in seguito all’abbandono all’interno di veicoli siano da ritenersi connessi al normale funzionamento della nostra memoria di lavoro (working memory); un sistema di immagazzinamento temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato, per consentirne l’utilizzo nell’immediato (ad esempio ricordarsi indicazioni stradali, un numero civico o un numero di telefono senza poterseli appuntare), in termini più prettamente psicologici è l’interfaccia tra percezione, memoria a lungo termine e azione che sottende i processi di pensiero.

    L’efficienza della nostra memoria di lavoro dipende dall’interazione fra le informazioni ambientali che raccogliamo continuamente e le nostre memorie pregresse. Questa combinazione ci permette di agire, di pianificare e di portare avanti anche molti compiti simultaneamente, insomma è alla base dello svolgimento delle nostre “funzioni esecutive”. Proprio mentre svolgiamo queste azioni prestiamo attenzione a determinati stimoli e ne ignoriamo degli altri, a seconda di ciò su cui la nostra memoria di lavoro sta, appunto, lavorando. In compiti complessi che coinvolgono più tipi di attività mentali, le funzioni esecutive pianificano la sequenza di passaggi mentali e programmano le diverse nostre azioni, spostando il focus dell’attenzione tra le attività secondo necessità.

    Ora possiamo affermare che le informazioni sensoriali che ci raggiungono rappresentano un fattore scatenante per la performance della nostra memoria di lavoro e quindi, le informazioni raccolte e mantenute per breve tempo in essa corrispondono, in sostanza, a ciò a cui si sta prestando attenzione in un dato momento. Nei casi di decessi di minori dimenticati all’interno di veicoli, spesso la presenza del bambino non si associa (per buona parte del tragitto) con segnali sensoriali utili a richiamare l’attenzione sul bimbo. Nella maggior parte dei casi, infatti, il bambino è posizionato nel sedile posteriore e in molte circostanze dorme. Ciò coincide con l’assenza di informazioni relative alla presenza del bambino in auto. Questo dato costituisce di per sé un fattore di rischio rispetto a come funziona la memoria di lavoro anche in condizioni normali, cioè in assenza di altri fattori quali: distrattori ambientali e/o stress e/o deficit psichici.

    Dal punto di vista esecutivo, cioè quello che effettivamente facciamo, è che se le informazioni su ciò che sta accadendo nel presente non comprendono segnali della presenza del bambino, questo dato non potrà essere integrato nel processo decisionale e quindi le conoscenze pregresse, le routine, gli schemi comportamentali abituali (per es., uscire di casa e andare sul posto di lavoro) avranno la priorità. Ciò incide direttamente sulla possibilità di prevedere le conseguenze di una determinata scelta comportamentale. Ne deriva che anche la previsione delle conseguenze della scelta comportamentale (per es., parcheggiare davanti all’ufficio e chiudere l’auto) non includerà la presenza del bambino nel veicolo. Consideriamo un ultimo aspetto, aggravante. Stati anche transitori di tipo depressivo e forti tensioni legate allo stress sono riconosciuti come fattori impattanti sulla nostra memoria così come la riduzione se non la deprivazione di sonno. Il possibile mix che porta a dimenticare quel che riteniamo indimenticabile è purtroppo, molto vicino al nostro stile di vita e non fa i conti con un principio fondamentale del nostro cervello; lavorare in economia e ridurre il più possibile in numero di informazioni da analizzare.

  • Impariamo parlando con gli sconosciuti

    Parlare con gli altri può essere un’utile fonte di apprendimento praticamente su qualsiasi argomento. Le informazioni scambiate attraverso la conversazione sono fondamentali per la cultura e la società, poiché parlare con gli altri comunica norme, crea comprensione condivisa, trasmette moralità, condivide conoscenze, fornisce prospettive diverse e altro ancora. Eppure scopriamo che le persone sottovalutano sistematicamente ciò che potrebbero imparare durante una conversazione, anticipando che impareranno meno di quanto effettivamente imparino. In un lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS gli studiosi suggeriscono che le persone possono sistematicamente sottovalutare il beneficio informativo della conversazione, creando una barriera al parlare con gli altri nella vita quotidiana. I partecipanti a cui è stato chiesto di parlare con un’altra persona si aspettavano di imparare molto meno dalla conversazione di quanto effettivamente hanno riferito di aver appreso in seguito (Exp 1-2). La sottovalutazione della conversazione non deriva dall’avere opinioni negative su quanto gli altri sanno (Esp 3), ma è invece correlata all’incertezza intrinseca nella conversazione stessa. Di conseguenza, le persone sottovalutano l’apprendimento in misura minore quando l’incertezza è ridotta, come in un contesto non sociale (navigazione sul web, Esp 4), quando si parla con un interlocutore conosciuto (Esp 5) e dopo aver conosciuto il contenuto della conversazione (Esp 6).

  • Poche persone sanno quello che condividono…

    In una serie di studi pubblicati sul Journal of consumer psychology, pare che la condivisione di contenuti online aumenti la nostra convinzione di conoscere determinate informazioni piuttosto che conoscerle effettivamente. In altre parole crediamo che condividere qualcosa sui social media significhi qualcosa: dice agli altri che pensiamo di essere informati su un particolare argomento. Ai partecipanti è stata mostrata una serie di articoli che potevano condividere, indipendentemente se li avessero letti o meno. Ma ecco la scoperta interessante: i partecipanti che hanno condiviso un articolo, senza averlo letto dichiaravano di sentirsi come se conoscessero l’argomento, solo per averlo condiviso, anche se, ovviamente, non lo conoscevano.