Categoria: stress

  • la forgotten baby syndrome ovvero perchè l’impensabile può accadere a tutti noi

    Forgotten Baby Syndrome (FBS), così viene definito il fenomeno in cui i bambini vengono “dimenticati” all’interno di un veicolo parcheggiato. Si tratta di un fenomeno in crescita costante con importanti ripercussioni per il genitore, per la famiglia e per la società. Proprio in questi giorni la cronaca riporta un caso tragico accaduto a Roma dove una bimba di 14 mesi è morta in auto.

    Ognuno di noi prima o poi si è posto la domanda: “come può accadere?!”. Le ricerche scientifiche sul tema sono molto limitate e ancor più raramente vengono analizzate le circostanze in cui tali decessi si verificano ma è bene chiarire subito che nella maggior parte dei casi questi episodi coinvolgono soggetti adulti che hanno funzionalità psichiche e cognitive perfettamente integre per cui le dinamiche che portano a dimenticarsi o ad essere inconsapevoli di aver lasciato i bambini in auto appaiono incomprensibili. Anzi, se si guarda alle caratteristiche dei singoli episodi ci si trova, quasi sempre, di fronte a genitori amorevoli che non hanno dato mai segni di instabilità o di negligenza.

    Una delle ipotesi maggiormente accreditate indica che i casi di morte di minori in seguito all’abbandono all’interno di veicoli siano da ritenersi connessi al normale funzionamento della nostra memoria di lavoro (working memory); un sistema di immagazzinamento temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato, per consentirne l’utilizzo nell’immediato (ad esempio ricordarsi indicazioni stradali, un numero civico o un numero di telefono senza poterseli appuntare), in termini più prettamente psicologici è l’interfaccia tra percezione, memoria a lungo termine e azione che sottende i processi di pensiero.

    L’efficienza della nostra memoria di lavoro dipende dall’interazione fra le informazioni ambientali che raccogliamo continuamente e le nostre memorie pregresse. Questa combinazione ci permette di agire, di pianificare e di portare avanti anche molti compiti simultaneamente, insomma è alla base dello svolgimento delle nostre “funzioni esecutive”. Proprio mentre svolgiamo queste azioni prestiamo attenzione a determinati stimoli e ne ignoriamo degli altri, a seconda di ciò su cui la nostra memoria di lavoro sta, appunto, lavorando. In compiti complessi che coinvolgono più tipi di attività mentali, le funzioni esecutive pianificano la sequenza di passaggi mentali e programmano le diverse nostre azioni, spostando il focus dell’attenzione tra le attività secondo necessità.

    Ora possiamo affermare che le informazioni sensoriali che ci raggiungono rappresentano un fattore scatenante per la performance della nostra memoria di lavoro e quindi, le informazioni raccolte e mantenute per breve tempo in essa corrispondono, in sostanza, a ciò a cui si sta prestando attenzione in un dato momento. Nei casi di decessi di minori dimenticati all’interno di veicoli, spesso la presenza del bambino non si associa (per buona parte del tragitto) con segnali sensoriali utili a richiamare l’attenzione sul bimbo. Nella maggior parte dei casi, infatti, il bambino è posizionato nel sedile posteriore e in molte circostanze dorme. Ciò coincide con l’assenza di informazioni relative alla presenza del bambino in auto. Questo dato costituisce di per sé un fattore di rischio rispetto a come funziona la memoria di lavoro anche in condizioni normali, cioè in assenza di altri fattori quali: distrattori ambientali e/o stress e/o deficit psichici.

    Dal punto di vista esecutivo, cioè quello che effettivamente facciamo, è che se le informazioni su ciò che sta accadendo nel presente non comprendono segnali della presenza del bambino, questo dato non potrà essere integrato nel processo decisionale e quindi le conoscenze pregresse, le routine, gli schemi comportamentali abituali (per es., uscire di casa e andare sul posto di lavoro) avranno la priorità. Ciò incide direttamente sulla possibilità di prevedere le conseguenze di una determinata scelta comportamentale. Ne deriva che anche la previsione delle conseguenze della scelta comportamentale (per es., parcheggiare davanti all’ufficio e chiudere l’auto) non includerà la presenza del bambino nel veicolo. Consideriamo un ultimo aspetto, aggravante. Stati anche transitori di tipo depressivo e forti tensioni legate allo stress sono riconosciuti come fattori impattanti sulla nostra memoria così come la riduzione se non la deprivazione di sonno. Il possibile mix che porta a dimenticare quel che riteniamo indimenticabile è purtroppo, molto vicino al nostro stile di vita e non fa i conti con un principio fondamentale del nostro cervello; lavorare in economia e ridurre il più possibile in numero di informazioni da analizzare.

  • E’ possibile insegnare ad essere felici?

    Da ormai qualche anno diverse prestigiose università statunitensi hanno attivato corsi di psicologia positiva. A Yale il corso di Psychology and the Good Life, introdotto nel 2018 da Laurie Santos, è il più popolare dell’ateneo ed è frequentato da quasi un iscritto su quattro. Il successo è tale che il corso (adattato) è anche online: si chiama «la Scienza del benessere», dura sei settimane ed è seguito (gratuitamente) da oltre 4 milioni di persone nel mondo. Quest’estate verrà lanciata online una versione per adolescenti, («The Science of Well-Being for Teens»), tra i più colpiti da ansia e depressione. Le ultime statistiche in America segnalano che il numero dei depressi è aumentato del 40%, la sensazione di ansia e solitudine del 66%, l’87% in più si sente sopraffatto dalla prestazione e cresce (+13%) il numero di chi considera seriamente il suicidio

    Fred Luskin, direttore dello Stanford Forgiveness Project, sostiene che attenuare la colpa di ciò che ci ha ferito, prendere meno sul personale le nostre esperienze di vita e vedere il costo del rancore siano un buon modo per nutrire la nostra felicità. La sua terapia del perdono del Progetto dell’Università di Stanford è stata sperimentata con successo con le vittime di violenza nell’Irlanda del Nord, in Sierra Leone e perfino con i sopravvissuti dell’attacco dell’11 Settembre.

    «Il perdono esiste in noi, perdoniamo non perché vogliamo accettare un comportamento orrendo, sbagliato, ma perché vogliamo avere accesso al nostro cuore. Ci diciamo: non è colpa mia. Ma più ci identifichiamo con questa affermazione, meno abbiamo accesso al nostro cuore. Il perdono è aprire il nostro cuore», sostiene Luskin.

    Luskin indica come possiamo lavorare su di noi e praticare la gratitudine e la compassione. « Senza perdono, non c’è futuro. Senza perdono, ripetiamo semplicemente il nostro passato. Il perdono non cancella la verità, ma ci riposiziona nel mondo dove siamo. Senza perdono non siamo aperti all’oggi, siamo bloccati nel nostro passato. Ogni volta che non perdoniamo e parliamo negativamente di una persona, contribuiamo alla sofferenza. E richiede grande coraggio interrompere quella sofferenza». Per guarire non dobbiamo nutrire il risentimento: «Siamo fatti per trattenerlo, per esprimerlo e poi lasciarlo andare. Conservate il ricordo, ma lasciate andare il dolore».

  • Sempre più ansia e stress tra gli adolescenti. L’importanza degli psicologi nelle scuole

    Sono sempre di più i casi di autolesionismo, disturbi d’ansia, disturbi dell’umore con ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, disturbi della condotta alimentare e disturbi dello spettro somatoforme. E’ quanto emerge dall’incontro dal titolo “Salute mentale dei bambini e adolescenti: nuove emergenze”, che si è tenuto nell’Aula Magna dell’IRCCS Gaslini di Genova in cui sono stati presentati i dati dell’andamento dei ricoveri per patologie psichiatriche nell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’ospedale pediatrico genovese. I dati mostrano un aumento esponenziale dei ricoveri per disturbi psichiatrici acuti negli adolescenti rispetto al periodo pre-Covid passati dai 72 casi del 2019 ai 270 del 2022 con un incremento dei pazienti di sesso femminile, passati dal 46% al 73%, e per un incremento della aggressività verso se stessi con numeri che sono letteralmente “esplosi”.
    Contestualmente la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini intervenendo all’apertura dell’anno accademico dell’Università Politecnica delle Marche ha parlato della necessità di predisporre presìdi permanenti, stabili, strutturali, psicologici, di sostegno agli studenti con i fondi che ci sono a disposizione facendo eco all’allarme lanciato nei giorni scorsi tramite la Rete degli studenti medi e l’Unione degli universitari che hanno avanzato alla Camera la richiesta di regolare e finanziare un servizio di assistenza psicologica, psicoterapeutica e di counselling scolastico e universitario, con personale professionista e che si interfacci con il servizio sanitario territoriale assicurando la presa in carico degli studenti che ne abbiano bisogno. Infine, secondo un altro studio “Dipendenze comportamentali nella Generazione Z”, frutto di un accordo tra il Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità, presentato all’Iss, quasi 2 milioni di adolescenti in Italia presentano caratteristiche compatibili con una dipendenza comportamentale: 1,2 milioni di dipendenza dal cibo, quasi 500mila da videogiochi; circa 100mila da social media. Sono oltre 65 mila, invece, i ragazzi che fuggono dai rapporti sociali (il cosiddetto Hikikomori).

  • Philip George Zimbardo e il controverso esperimento carcerario di Stanford

    Nasceva oggi 23 Marzo 1933 Philip Zimbardo, Professore emerito a Stanford e autore di uno degli studi più discussi e popolari della psicologia sociale. Tra il 14 e il 21 Agosto 1971, un gruppo di 24 studenti universitari maschi sani fisicamente e mentalmente venne selezionato tra più di 70 volontari per partecipare a “uno studio psicologico sulla vita in prigione”. I partecipanti furono divisi casualmente in un numero uguale di guardie e prigionieri; le guardie, vestite con uniformi appositamente per promuovere un processo di deindividuazione, provviste di occhiali da sole a specchio che impedivano qualsiasi contatto visivo e di un manganello, ricevettero istruzioni per impedire la fuga dei prigionieri che, a loro volta, dopo essere stati “arrestati” dalla vera polizia di Palo Alto, indossavano un’uniforme con numero identificativo e una catena alla caviglia destra. I partecipanti entrarono talmente bene nei rispettivi ruoli che la prigione finta fini col tramutarsi rapidamente in una prigione vera e dopo soli due giorni dall’inizio dell’esperimento erano già numerosi gli episodi di violenza tanto da portare i prigionieri a tentare un’evasione. Nei giorni successivi le guarde divennero sempre più sadiche mentre i prigionieri, ormai mentalmente disgregati, apparivano docili e rassegnati. Trascorsi 5 giorni una equipe di psicologi colleghi di Zimbardo visitò il sito dell’esperimento e rimase sconvolta nel vedere come si stavano comportando i partecipanti. Il sesto giorno Zimbardo fu sostanzialmente costretto a porre fine allo studio. Philip Zimbardo concluse la ricerca affermando l’importanza dell’ambiente nel determinare le condotte individuali (e quelle aggressive in particolare) rispetto a fattori endogeni ma l’intera ricerca venne aspramente criticata dal punto di vista metodologico e le osservazioni tratte dagli sperimentatori furono etichettate come soggettive e aneddotiche. L’esperimento carcerario di Stanford ad oggi è uno degli studi più controversi ed eticamente discutibili della storia della psicologia. Basti pensare che il danno inflitto ai partecipanti ha spinto le università di tutto il mondo a migliorare i requisiti etici per i soggetti umani osservati negli esperimenti per evitare che subiscano danni simili.

  • Lo stress ci priva di ciò che ci piace

    È risaputo che lo stress cronico può influire pesantemente sul nostro comportamento, portando a problemi come la depressione e un ridotto interesse per cose che in precedenza ci davano piacere. Ora gli scienziati hanno la prova che un gruppo di neuroni, chiamati POMC in base alla sostanza che produrrà ormoni peptidici, diventa iperattivo dopo l’esposizione cronica allo stress. L’iperattività di questi neuroni è alla base di alcuni problemi comportamentali. In particolare una equipe di ricercatori del Medical College of Georgia ha esaminato l’attività di questi neuroni che si trovano in una regione particolare del nostro cervello; l’ipotalamo, struttura chiave per funzioni come il rilascio di ormoni e la regolazione della fame, della sete, dell’umore, del desiderio sessuale e del sonno, in risposta a 10 giorni di stress cronico e imprevedibile.
    Lo studio condotto sui topi ha mostrato come i fattori di stress aumentavano l’attivazione spontanea di questi neuroni POMC nei topi maschi e femmine, Inoltre l’attivazione diretta di questi neuroni ha provocato l’apparente incapacità di provare piacere, chiamata anedonia, e disperazione comportamentale, che è essenzialmente depressione.

  • Stress, lavoro e burnout. Scegli quale fiammifero ti rappresenta

    Il burnout secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è una sindrome derivante da stress cronico associato ad una cattiva gestione del contesto lavorativo. Il burnout lavorativo può portare a una riduzione della produttività, ad aumento generalizzato dello stress e persino al ricovero in ospedale. Una nuova ricerca dell’Università di Notre Dame pubblicata sul Journal of Applied Psychology offre un modo rapido e semplice per quantificare il rischio di burnout. Utilizzando una scala visiva a 6 o ad 8 intervalli i partecipanti erano invitati a indicare quale fiammifero rappresentasse il loro vissuto lavorativo. I risultati indicano che questa scala è in grado di individuare i predittori e le conseguenze del burnout lavorativo in modo intuitivo.