Categoria: depressione

  • Farmaci, ansia e depressione… a never ending story

    Ansia e depressione sono le condizioni di salute mentale più diffuse in tutto il mondo. A livello globale, circa 280 milioni di persone soffrono di depressione e circa 1 persona su 3 rientra nei criteri diagnostici per un disturbo d’ansia ad un certo punto della propria vita. Esistono numerose opzioni terapeutiche efficaci per entrambe le condizioni, inclusi farmaci, psicoterapia, cambiamenti dello stile di vita e neurostimolazione.

    Medici e psicologi raccomandano a molti pazienti di provare più di un approccio contemporaneamente, come farmaci e terapie. Ciò si basa sull’idea che se rispondessero bene a uno qualsiasi dei trattamenti prescritti, sperimenterebbero un beneficio netto più rapidamente o più forte che se li provassero ciascuno in sequenza. Tuttavia, i ricercatori hanno storicamente studiato ciascun approccio isolatamente. La maggior parte della ricerca si è concentrata sul confronto dei singoli trattamenti uno alla volta.

    I recenti progressi nella comprensione scientifica della depressione, dell’ansia e di altre condizioni legate allo stress suggeriscono che i cambiamenti e i disturbi della neuroplasticità contribuiscono in modo fondamentale. La neuroplasticità si riferisce alla capacità del cervello di adattarsi in modo flessibile in risposta a un ambiente in continua evoluzione: è una componente fondamentale dell’apprendimento. Negli studi sugli animali, i deficit nella neuroplasticità sono visti come cambiamenti nei percorsi molecolari e neurali, come una diminuzione del numero di sinapsi o punti di contatto tra neuroni, a seguito di stress cronico. Questi cambiamenti potrebbero essere correlati a modelli mentali e sintomi di depressione e ansia nelle persone, come quando i pazienti riferiscono una ridotta capacità di pensare, sentire e agire in modo flessibile. Possono anche essere collegati al pensare, ricordare e interpretare le informazioni in un modo che tende ad essere sbilanciato verso il negativo.

    La ricerca ha dimostrato che molti trattamenti biologici efficaci, compresi i farmaci e la neurostimolazione, possono migliorare o alterare la neuroplasticità. Alcuni cambiamenti nello stile di vita, come l’esercizio fisico regolare, possono avere effetti simili. Gli scienziati considerano questa chiave per ridurre i sintomi. Sfortunatamente, i sintomi spesso ritornano quando questi trattamenti vengono interrotti. La ricaduta è particolarmente evidente per i farmaci. Sia per i farmaci antidepressivi e ansiolitici, i tassi di recidiva iniziano ad aumentare poco dopo che i pazienti interrompono il trattamento.

    Al contrario, l’approccio comportamentale come la psicoterapia introduce nuove abilità e abitudini che possono durare più a lungo. I benefici continuano anche dopo la fine della fase più intensa del trattamento. Incontri regolari con un terapeuta nel corso di diversi mesi possono aiutare molti pazienti a imparare ad affrontare i sintomi negativi e le circostanze della vita in modi nuovi. Ma tale apprendimento dipende dalla neuroplasticità per forgiare e trattenere questi nuovi e utili percorsi nel cervello.

    I ricercatori ipotizzano che il miglioramento o la modulazione della plasticità con un intervento biologico come i farmaci possa non solo ridurre i sintomi ma anche fornire una finestra di opportunità affinché interventi comportamentali come la psicoterapia siano più efficaci. Interventi basati sull’apprendimento come la terapia cognitivo-comportamentale o l’esposizione, se opportunamente programmati, potrebbero sfruttare la maggiore neuroplasticità indotta dagli interventi biologici e migliorare i risultati a lungo termine.

    La progettazione di trattamenti combinati sinergici è relativamente nuova ma le evidenze a sostegno stanno crescendo. Alcuni studi hanno dimostrato che la D-cicloserina, un antibiotico usato per trattare la tubercolosi, può rendere più efficace la terapia per l’ansia aiutando i pazienti a imparare a reprimere le loro paure. La D-cicloserina può anche potenziare gli effetti antidepressivi di un tipo di neurostimolazione chiamata stimolazione magnetica transcranica, che stimola le cellule nervose utilizzando campi magnetici. Diversi studi suggeriscono che l’abbinamento della neurostimolazione con la terapia cognitivo-comportamentale o l’allenamento per il controllo cognitivo possono produrre riduzioni a lungo termine della depressione e dell’ansia.

    Allo stesso modo, basse dosi di ketamina, un farmaco utilizzato in anestesia generale, con rapidi effetti antidepressivi, possono essere utilizzate per facilitare processi di apprendimento che possono essere promossi a scopo terapeutico. Uno studio molto recente ha rilevato che esercizi giornalieri al computer di 30-40 minuti per quattro giorni dopo una singola dose di ketamina hanno portato a un aumento di nove volte della durata degli effetti antidepressivi – 90 giorni di riduzione dei sintomi – rispetto alla sola ketamina, che ha portato a 10 giorni di riduzione dei sintomi.

    Infine, c’è un crescente interesse nell’uso di altri farmaci con proprietà psichedeliche come ausilio nella psicoterapia. I benefici terapeutici derivanti dall’assunzione di queste terapie assistite da sostanze psichedeliche sotto controllo medico sono attribuiti al rapido effetto di miglioramento della neuroplasticità e di alterazione della coscienza di farmaci come la psilocibina e l’MDMA.

    Esiste un grande potenziale nelle modalità guidate dalle neuroscienze per combinare i trattamenti. Tuttavia, è importante notare che diversi approcci terapeutici possono occasionalmente funzionare l’uno contro l’altro, diminuendo i benefici a lungo termine della sola psicoterapia. Ad esempio, uno studio sugli attacchi di panico ha rilevato che i pazienti che avevano appreso tecniche di psicoterapia mentre assumevano farmaci anti-ansia avevano maggiori probabilità di ricaduta dopo aver interrotto il loro uso rispetto a quelli trattati con la sola psicoterapia. Sono necessari studi clinici attentamente progettati e follow-up a lungo termine per comprendere appieno come combinare il biologico e il comportamentale per sviluppare trattamenti che siano efficienti, accessibili, sicuri e duraturi.

  • Cosa vuol dire essere il bersaglio del “gaslighthing”?

    Se trascorri del tempo online, probabilmente sei entrato in contatto con alcuni termini psicologici senza rendertene pienamente conto. Il principale esempio è il termine “gaslighting”, che recentemente è diventato così popolare da conquistare il titolo di Parola dell’anno secondo il prestigioso dizionario Merriam-Webster.

    Il gaslighting è una forma insidiosa di manipolazione e controllo psicologico. Le vittime del gaslighting ricevono deliberatamente e sistematicamente informazioni false che le portano a mettere in discussione ciò che sanno essere vero, spesso su se stesse. Potrebbero finire per dubitare della loro memoria, della loro percezione e persino della loro sanità mentale. Accade spesso all’interno di relazioni abusive, ad esempio, qualcuno potrebbe insistere ripetutamente sul fatto che un evento non è mai accaduto, anche se è accaduto o insistere sulla nostra eccessiva suscettibilità. L’intento del gaslighting è davvero quello di creare confusione, seminare il dubbio e può essere una tattica molto coercitiva e di controllo.

    ll termine gaslighting deriva da un’opera teatrale del 1938, Gas Light, e dal suo adattamento cinematografico del 44 (un film notevolissimo con Ingrid Bergman e Joseph Cotten). Ambientato nell’élite londinese durante l’era vittoriana, ritrae un marito apparentemente gentile che usa bugie e manipolazioni per isolare la moglie ereditiera e convincerla che è malata mentalmente in modo che possa derubarla. Nella storia il marito abbassa e illumina segretamente l’illuminazione di casa alimentata a gas, ma insiste che sua moglie lo stia immaginando, facendole credere che sta impazzendo. Il gaslighting può verificarsi nelle relazioni personali o professionali e le vittime sono prese di mira precisamente al centro del loro essere: il loro senso di identità e autostima. Le persone manipolatrici che si dedicano al gaslighting lo fanno per ottenere potere sulle loro vittime, sia perché traggono semplicemente un divertimento distorto dall’atto o perché desiderano controllare emotivamente, fisicamente o finanziariamente la loro vittima.

    Un nuovo studio pubblicato su Personal Relationships discute di come si svolge il gaslighting nelle relazioni romantiche (altri contesti in cui è stato documentato includono i social media, il posto di lavoro e l’assistenza sanitaria). Lo studio in particolare esplora l’impatto psicologico sulle vittime, le motivazioni alla base del gaslighting e come si sviluppa all’interno di una relazione.

    I gaslighters (ovvero chi vuole manipolare l’altro) impiegano varie tattiche per convincere le loro vittime della loro stessa incompetenza. Queste tattiche sono spesso adattate per colpire le vulnerabilità della vittima, ad esempio: accusare i loro partner di essere paranoici, eccessivamente emotivi o pazzi quando vengono interrogati su comportamenti sospetti. Attraverso un’analisi qualitativa delle risposte al sondaggio di 65 vittime di gaslighting, i ricercatori hanno identificato conseguenze psicosociali significative, come la sensazione di perdere una parte della propria identità, sperimentare un concetto di sé diminuito e di sentirsi isolati
    socialmente. Questo isolamento potrebbe verificarsi sia durante la relazione, sia anche dopo la fine della relazione, poiché alcune vittime hanno sviluppato una profonda sfiducia nei confronti degli altri.
    Un piccolo sottogruppo di partecipanti ha anche riportato racconti di crescita post-traumatica. Questi partecipanti sentivano di aver superato e imparato dall’abuso. Tuttavia, altri soggetti hanno riferito di non essersi ripresi nemmeno anni dopo la loro esperienza.

    I ricercatori hanno anche isolato quelle che a loro avviso sono le motivazioni principali dei gaslighters ovvero evitare la responsabilità per un cattivo comportamento, come l’infedeltà e controllare il comportamento della vittima. Inoltre, lo studio ha scoperto varie fasi durante le quali si svolge il gaslighting: La fase iniziale spesso comporta un grande coinvolgimento amoroso, caratterizzato da eccessivo affetto, generosità e attenzione. Questo stabilisce un legame emotivo e fiducia, che contribuisce alla vulnerabilità della vittima.
    Successivamente, il gaslighting si intensifica, con le vittime che entrano in un ciclo di feedback che razionalizza il comportamento del gaslighter, portando a effetti psicologici negativi (incredulità, difesa e depressione).

    È importante notare che nella maggior parte dei casi, il gaslighting si verifica senza che il gaslighter pianifichi esplicitamente le proprie azioni manipolative ma cosa si può fare quando si è vittime di questo meccanismo? I ricercatori suggeriscono quanto sia importante osservare attentamente il comportamento del nostro gaslighter, le sue incongruenze, non importa quanto convincente risulti ai nostri occhi, è raro che non si sbagli mai nei giudizi. Poniamo attenzione al modo in cui il loro comportamento cambia intorno a noi e rispetto agli altri. Coinvolgi altre persone. Confidarsi con altre persone come un amico fidato o un professionista qualificato non solo ci farà sentire più leggeri, ma ci aiuterà anche ad acquisire una prospettiva necessaria a ripristinare il senso della realtà.

  • la forgotten baby syndrome ovvero perchè l’impensabile può accadere a tutti noi

    Forgotten Baby Syndrome (FBS), così viene definito il fenomeno in cui i bambini vengono “dimenticati” all’interno di un veicolo parcheggiato. Si tratta di un fenomeno in crescita costante con importanti ripercussioni per il genitore, per la famiglia e per la società. Proprio in questi giorni la cronaca riporta un caso tragico accaduto a Roma dove una bimba di 14 mesi è morta in auto.

    Ognuno di noi prima o poi si è posto la domanda: “come può accadere?!”. Le ricerche scientifiche sul tema sono molto limitate e ancor più raramente vengono analizzate le circostanze in cui tali decessi si verificano ma è bene chiarire subito che nella maggior parte dei casi questi episodi coinvolgono soggetti adulti che hanno funzionalità psichiche e cognitive perfettamente integre per cui le dinamiche che portano a dimenticarsi o ad essere inconsapevoli di aver lasciato i bambini in auto appaiono incomprensibili. Anzi, se si guarda alle caratteristiche dei singoli episodi ci si trova, quasi sempre, di fronte a genitori amorevoli che non hanno dato mai segni di instabilità o di negligenza.

    Una delle ipotesi maggiormente accreditate indica che i casi di morte di minori in seguito all’abbandono all’interno di veicoli siano da ritenersi connessi al normale funzionamento della nostra memoria di lavoro (working memory); un sistema di immagazzinamento temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato, per consentirne l’utilizzo nell’immediato (ad esempio ricordarsi indicazioni stradali, un numero civico o un numero di telefono senza poterseli appuntare), in termini più prettamente psicologici è l’interfaccia tra percezione, memoria a lungo termine e azione che sottende i processi di pensiero.

    L’efficienza della nostra memoria di lavoro dipende dall’interazione fra le informazioni ambientali che raccogliamo continuamente e le nostre memorie pregresse. Questa combinazione ci permette di agire, di pianificare e di portare avanti anche molti compiti simultaneamente, insomma è alla base dello svolgimento delle nostre “funzioni esecutive”. Proprio mentre svolgiamo queste azioni prestiamo attenzione a determinati stimoli e ne ignoriamo degli altri, a seconda di ciò su cui la nostra memoria di lavoro sta, appunto, lavorando. In compiti complessi che coinvolgono più tipi di attività mentali, le funzioni esecutive pianificano la sequenza di passaggi mentali e programmano le diverse nostre azioni, spostando il focus dell’attenzione tra le attività secondo necessità.

    Ora possiamo affermare che le informazioni sensoriali che ci raggiungono rappresentano un fattore scatenante per la performance della nostra memoria di lavoro e quindi, le informazioni raccolte e mantenute per breve tempo in essa corrispondono, in sostanza, a ciò a cui si sta prestando attenzione in un dato momento. Nei casi di decessi di minori dimenticati all’interno di veicoli, spesso la presenza del bambino non si associa (per buona parte del tragitto) con segnali sensoriali utili a richiamare l’attenzione sul bimbo. Nella maggior parte dei casi, infatti, il bambino è posizionato nel sedile posteriore e in molte circostanze dorme. Ciò coincide con l’assenza di informazioni relative alla presenza del bambino in auto. Questo dato costituisce di per sé un fattore di rischio rispetto a come funziona la memoria di lavoro anche in condizioni normali, cioè in assenza di altri fattori quali: distrattori ambientali e/o stress e/o deficit psichici.

    Dal punto di vista esecutivo, cioè quello che effettivamente facciamo, è che se le informazioni su ciò che sta accadendo nel presente non comprendono segnali della presenza del bambino, questo dato non potrà essere integrato nel processo decisionale e quindi le conoscenze pregresse, le routine, gli schemi comportamentali abituali (per es., uscire di casa e andare sul posto di lavoro) avranno la priorità. Ciò incide direttamente sulla possibilità di prevedere le conseguenze di una determinata scelta comportamentale. Ne deriva che anche la previsione delle conseguenze della scelta comportamentale (per es., parcheggiare davanti all’ufficio e chiudere l’auto) non includerà la presenza del bambino nel veicolo. Consideriamo un ultimo aspetto, aggravante. Stati anche transitori di tipo depressivo e forti tensioni legate allo stress sono riconosciuti come fattori impattanti sulla nostra memoria così come la riduzione se non la deprivazione di sonno. Il possibile mix che porta a dimenticare quel che riteniamo indimenticabile è purtroppo, molto vicino al nostro stile di vita e non fa i conti con un principio fondamentale del nostro cervello; lavorare in economia e ridurre il più possibile in numero di informazioni da analizzare.

  • E’ possibile insegnare ad essere felici?

    Da ormai qualche anno diverse prestigiose università statunitensi hanno attivato corsi di psicologia positiva. A Yale il corso di Psychology and the Good Life, introdotto nel 2018 da Laurie Santos, è il più popolare dell’ateneo ed è frequentato da quasi un iscritto su quattro. Il successo è tale che il corso (adattato) è anche online: si chiama «la Scienza del benessere», dura sei settimane ed è seguito (gratuitamente) da oltre 4 milioni di persone nel mondo. Quest’estate verrà lanciata online una versione per adolescenti, («The Science of Well-Being for Teens»), tra i più colpiti da ansia e depressione. Le ultime statistiche in America segnalano che il numero dei depressi è aumentato del 40%, la sensazione di ansia e solitudine del 66%, l’87% in più si sente sopraffatto dalla prestazione e cresce (+13%) il numero di chi considera seriamente il suicidio

    Fred Luskin, direttore dello Stanford Forgiveness Project, sostiene che attenuare la colpa di ciò che ci ha ferito, prendere meno sul personale le nostre esperienze di vita e vedere il costo del rancore siano un buon modo per nutrire la nostra felicità. La sua terapia del perdono del Progetto dell’Università di Stanford è stata sperimentata con successo con le vittime di violenza nell’Irlanda del Nord, in Sierra Leone e perfino con i sopravvissuti dell’attacco dell’11 Settembre.

    «Il perdono esiste in noi, perdoniamo non perché vogliamo accettare un comportamento orrendo, sbagliato, ma perché vogliamo avere accesso al nostro cuore. Ci diciamo: non è colpa mia. Ma più ci identifichiamo con questa affermazione, meno abbiamo accesso al nostro cuore. Il perdono è aprire il nostro cuore», sostiene Luskin.

    Luskin indica come possiamo lavorare su di noi e praticare la gratitudine e la compassione. « Senza perdono, non c’è futuro. Senza perdono, ripetiamo semplicemente il nostro passato. Il perdono non cancella la verità, ma ci riposiziona nel mondo dove siamo. Senza perdono non siamo aperti all’oggi, siamo bloccati nel nostro passato. Ogni volta che non perdoniamo e parliamo negativamente di una persona, contribuiamo alla sofferenza. E richiede grande coraggio interrompere quella sofferenza». Per guarire non dobbiamo nutrire il risentimento: «Siamo fatti per trattenerlo, per esprimerlo e poi lasciarlo andare. Conservate il ricordo, ma lasciate andare il dolore».

  • Il disagio psicologico giovanile aumenta ma non trova ascolto

    Il nostro Paese partecipa allo studio multicentrico HBSC (Health Behaviour in School-aged Children – Comportamenti collegati alla salute in ragazzi di età scolare), che prevede una raccolta dati ogni quattro anni. In questi giorni è stato reso noto il rapporto del 2022 coordinato dall’Istituto superiore di sanità insieme alle Università di Padova, Siena e Torino, con il supporto del Ministero della Salute, la collaborazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito e tutte le Regioni e Aziende Sanitarie Locali.

    dalla relazione emerge come Il mondo dei ragazzi sia sempre più alle prese con gli effetti del bullismo, del cyberbullismo, dell’abuso dei social e dei videogame, dell’aumentare dei disturbi del comportamento alimentare oltre che crisi di agitazione psicomotoria e ansia. Tutto questo senza che famiglie e ragazzi trovino rapidamente un percorso di ascolto e assistenza nel Servizio sanitario pubblico.

    “Sul tema del disagio psicologico dei giovani mi pare che ci sia una difficoltà nel pensare alla risposta che, invece, è chiara: serve una risposta della psicologia, ma l’Italia non ha una psicologia pubblica, non si fa prevenzione e neanche promozione della salute. Chi può permetterselo si cura, chi non può non si cura, così siamo di fronte ad una ingiustizia sociale”. A sottolinearlo è David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale degli Ordini degli psicologi (Cnop). “Le terapie vanno messe lì dove serve e mi pare che la scuola sia uno dei luoghi in cui si può intercettare il disagio. Non dico di fare terapia psicologica scolastica, ma non dobbiamo neanche aspettare che i ragazzi si ammalino”.

    Lazzari sottolinea come “gli psicologi sono considerati un lusso. Allo stato attuale i cittadini che hanno un disagio psicologico, se lo tengono o si devono pagare la terapia. Ma su 10 che stanno male, due hanno un problema psichiatrico e 8 un disagio psicologico. Ebbene, a queste 8 non diamo nessuna risposta. I presidi delle scuole stanno chiedono di avere gli psicologi, ma nessuno risponde a questo appello. Sembra quasi un tabù – conclude – come se la cura dei problemi psicologici fosse riservata solo alle persone abbienti”

  • Lo stress ci priva di ciò che ci piace

    È risaputo che lo stress cronico può influire pesantemente sul nostro comportamento, portando a problemi come la depressione e un ridotto interesse per cose che in precedenza ci davano piacere. Ora gli scienziati hanno la prova che un gruppo di neuroni, chiamati POMC in base alla sostanza che produrrà ormoni peptidici, diventa iperattivo dopo l’esposizione cronica allo stress. L’iperattività di questi neuroni è alla base di alcuni problemi comportamentali. In particolare una equipe di ricercatori del Medical College of Georgia ha esaminato l’attività di questi neuroni che si trovano in una regione particolare del nostro cervello; l’ipotalamo, struttura chiave per funzioni come il rilascio di ormoni e la regolazione della fame, della sete, dell’umore, del desiderio sessuale e del sonno, in risposta a 10 giorni di stress cronico e imprevedibile.
    Lo studio condotto sui topi ha mostrato come i fattori di stress aumentavano l’attivazione spontanea di questi neuroni POMC nei topi maschi e femmine, Inoltre l’attivazione diretta di questi neuroni ha provocato l’apparente incapacità di provare piacere, chiamata anedonia, e disperazione comportamentale, che è essenzialmente depressione.

  • Deficit da serotonina e depressione, il legame viene confermato

    Sin dagli anni ’60, i ricercatori hanno ipotizzato che la depressione derivi da malfunzionamenti nel sistema del neurotrasmettitore serotonina (che viene prodotto dal nostro cervello grazie all’amminoacido triptofano presente in diversi cibi quali cioccolato, uova e pollo), ma le evidenze scientifiche in questo senso erano indirette. Un nuovo studio, invece, fornisce prove dirette del ruolo di questo importante neurotrasmettitore nel cervello di individui depressi. Su diciassette pazienti senza antidepressivi con episodi di depressione maggiore (MDE) sono state condotte indagini attraverso la PET (una tecnica di visualizzazione del cervello) rivelando come in essi vi fosse una ridotta produzione e rilascio di serotonina a livello della corteccia frontale .

  • 4 sensi di colpa che fanno male alle nostre relazioni

    Essere afflitti dal senso di colpa può consumare, se non erodere, la qualità di una relazione. Un concetto psicologico chiamato “senso di colpa da responsabilità onnipotente” potrebbe spiegare la sensazione cronica di dover fare sempre di più per il proprio partner. Secondo un nuovo studio dell’Università di Roma questa colpa da responsabilità onnipotente è una intima convinzione di potere/dovere rendere felici gli altri spesso tralasciando i propri bisogni. Gli altre tre sensi di colpa includono il senso di colpa del sopravvissuto (credere che non dovresti fare meglio di qualcun altro), il senso di colpa per separazione/slealtà (credere che faresti del male agli altri lasciandoli) e l’odio verso te stesso (la convinzione di non essere degno di amore).

  • Povertà, problemi psicologici e bullismo

    Uno studio pubblicato sul The Journal of Child Psychology and Psychiatry condotto da un team inglese ha analizzato la disuguaglianza economica percepita in oltre 10 mila bambini di 11 anni concludendo che i ragazzi che si ritenevano più poveri dei loro amici mostrano una bassa autostima e hanno anche il 17% di probabilità in più di subire atti di bullismo. Questo svantaggio sembra, inoltre, perpetrarsi nel tempo almeno fino ai 14 anni.

  • Depressione da social. Uno studio condotto su bambini e ragazzi rivela un possibile legame

    Con la pandemia di COVID-19 l’uso dei social è aumentato sensibilmente tra bambini e adolescenti. Una recente review comparsa sull’International Journal of Environmental Research and Public Health e condotta da ricercatori Italiani, ha passato in rassegna 68 lavori scientifici rilevando che in 19 di essi era presente una correlazione tra depressione ed uso di social anche tra i più piccoli. Sono emerse anche altre conseguenze negative associate ad uso intensivo dei social che variano dall’ansia, ai problemi alimentari, ai distubi del sonno per arrivare al cyberbullismo.