Questo è il paradosso della musica triste: generalmente non ci piace essere tristi nella vita reale, ma ci piace l’arte se anche ci fa sentire così. Innumerevoli studiosi a partire da Aristotele hanno cercato di spiegarlo. Forse sperimentiamo una catarsi di emozioni negative attraverso la musica. Forse c’è un vantaggio evolutivo in questo, o forse siamo socialmente condizionati ad apprezzare la nostra stessa sofferenza. Forse i nostri corpi producono ormoni in risposta al malessere frammentario della musica, creando una sensazione di consolazione.
In un nuovo studio, pubblicato sul Journal of Aesthetic Education, alcuni ricercatori hanno cercato di affrontare questo paradosso chiedendosi in cosa consista la musica triste.
Nel corso degli anni, la ricerca ha scoperto che le persone spesso hanno due concezioni della stessa cosa, una concreta e una astratta. Ad esempio, le persone potrebbero essere considerate artisti se mostrano una serie di caratteristiche concrete, come essere tecnicamente dotati di un pennello. Ma se non esibiscono certi valori astratti – se, ad esempio, mancano di creatività, curiosità o passione e si limitano a ricreare vecchi capolavori per un rapido profitto – si potrebbe dire che, in un altro senso, non sono artisti. Forse le canzoni tristi hanno una natura altrettanto duplice.
Certamente, la ricerca ha scoperto che la nostra risposta emotiva alla musica è multidimensionale; non sei solo felice quando ascolti una bella canzone, né semplicemente rattristato da una canzone triste. Un sondaggio condotto su 363 ascoltatori ha rilevato che le risposte emotive alle canzoni tristi rientravano grossomodo in tre categorie: dolore, compresi potenti sentimenti negativi come rabbia, terrore e disperazione; malinconia, una dolce tristezza, desiderio o autocommiserazione; e un dolce dolore, una piacevole fitta di consolazione o apprezzamento. Molti intervistati hanno descritto un mix dei tre (per rimanere in tema potremmo chiamare questi stati “kind of blue” come il celebre disco di Miles Davis).
Considerati gli strati di emozione e l’imprecisione del linguaggio, forse non c’è da meravigliarsi che la musica triste risulti un paradosso. Ma non spiega ancora perché possa sembrare piacevole.
Alcuni psicologi hanno esaminato come alcuni aspetti della musica – modalità, tempo, ritmo, timbro – si relazionano alle emozioni provate dagli ascoltatori. Gli studi hanno scoperto che alcune forme di canto svolgono funzioni quasi universali: in tutti i paesi e le culture, ad esempio, le ninne nanne tendono a condividere caratteristiche acustiche simili che infondono sia ai bambini che agli adulti un senso di sicurezza.
Altri scienziati sostengono che esistano meccanismi cognitivi attraverso i quali la tristezza può essere indotta negli ascoltatori. Riflessi inconsci nel tronco cerebrale; la sincronizzazione del ritmo con una cadenza interna, come il battito cardiaco; risposte condizionate a suoni particolari; ricordi innescati; contagio emotivo; una valutazione riflessiva della musica: tutti sembrano avere un ruolo. Forse, poiché la tristezza è un’emozione così intensa, la sua presenza può suscitare una reazione empatica positiva: sentire la tristezza di qualcuno può commuoverti in qualche modo prosociale.
Per verificare questa ipotesi, solo qualche anno fa è stato condotto uno studio in due parti. Nella prima parte agli oltre 400 soggetti veniva fornita una tra quattro descrizioni. Una descrizione riguardava una canzone che “trasmette emozioni profonde e complesse” ma era anche “tecnicamente molto imperfetta”. Una seconda una canzone “tecnicamente impeccabile” che “non trasmette emozioni profonde o complesse”. La terza descrizione era “profondamente emotiva e tecnicamente impeccabile”, infine la quarta era “tecnicamente imperfetta e priva di emozioni”.
Ai soggetti è stato chiesto di indicare, su una scala a sette punti, se la loro canzone “incarna ciò che è la musica”. L’obiettivo era chiarire quanto fosse importante l’espressione emotiva in generale per la musica a livello intuitivo. Nel complesso, i soggetti hanno riferito che le canzoni profondamente emotive ma tecnicamente imperfette riflettevano meglio l’essenza della musica; l’espressione emotiva era un valore più saliente della competenza tecnica.
Nella seconda parte dell’esperimento i ricercatori hanno fornito a ciascun partecipante 72 descrizioni di canzoni emotive, che esprimevano sentimenti tra cui “disprezzo”, “narcisismo”, “ispirazione” e “lussuria”. Nel complesso, le emozioni provate dai soggetti erano quelle che facevano sentire le persone più collegati tra loro nella conversazione: amore, gioia, solitudine, tristezza, estasi, calma, dolore.
Forse ascoltiamo musica non per una reazione emotiva – molti soggetti hanno riferito che la musica triste, anche se artistica, non era particolarmente piacevole – ma per il senso di connessione con gli altri. Applicato al paradosso della musica triste: il nostro amore per la musica non è un apprezzamento diretto della tristezza, è un apprezzamento della connessione.
Ma la musica triste è stratificata e questa spiegazione solleva altre domande. Con chi ci stiamo connettendo? L’artista? I nostri sé passati? Una persona immaginaria? E come può la musica triste essere “tutta incentrata” su qualcosa? Il potere dell’arte non deriva, in parte, dalla sua capacità di trascendere la sintesi, di espandere l’esperienza?
Le radici alla base del generale apprezzamento per la musica triste sono numerose e aggrovigliate, forse come suggerisce Thom Yorke (non uno psicologo ma un artista) “il giorno in cui la gente smetterà di sentire musica triste vorrà dire che non gli importerà più di nulla”.