Autore: marco

  • La cifra della felicità….

    È una domanda che accompagna tutti e che ci facciamo ciclicamente, nessuno (o quasi) escluso: il denaro può comprare la felicità? Da semplici cittadini o da grandi pensatori non giungiamo ad una conclusione condivisa, o forse desideriamo nascondere la vera risposta che abbiamo in mente…
    La maggior parte delle persone ad ogni modo è fortemente incline a pensare che la risposta alla domanda sia un grosso sì. Ora però due eminenti ricercatori, Daniel Kahneman e Matthew Killingsworth, dalle pagine di PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) provano a ribaltare il pensiero secondo cui le persone sono più felici quando guadagnano di più e affermano che la loro gioia si livella e si stabilizza quando il loro reddito raggiunge i 75.000 dollari all’anno (circa 65000 euro…).
    Questa soglia è stata inizialmente posta da Kahneman stesso, psicologo ed economista, vincitore del Premio Nobel in economia che ha individuato le basi irrazionali dietro i nostri più comuni ragionamenti finanziari. In un celebre studio del 2010 Kahneman ha concluso che (anche) il benessere emotivo aumenta con il reddito, ma non ci sono ulteriori progressi quando questo reddito annuo supera i 75.000 dollari.
    Nel 2021 però Killingsworth, condusse ricerche parallele e concluse che non era così! Il benessere sperimentato può continuare a crescere con un reddito ben oltre i 200.000 dollari. A questo punto i due hanno unito le forze per capire fino a quanti soldi all’anno dobbiamo mirare tutti per garantirci una fetta di felicità.

    Nel loro studio, Kahneman e Killingsworth hanno intervistato 33.391 adulti di età compresa tra i 18 e i 65 anni che vivono negli Stati Uniti, sono impiegati e dichiarano un reddito di almeno 10.000 dollari all’anno.
    Per misurare la loro felicità, ai partecipanti è stato chiesto di riferire sui loro sentimenti a intervalli casuali durante il giorno tramite un’app per smartphone sviluppata da Killingsworth chiamata diabolicamente Track Your Happiness.
    Lo studio ha raggiunto due grandi conclusioni: in primo luogo, che la felicità continua ad aumentare con il reddito anche nella fascia alta dei redditi per la maggior parte delle persone, dimostrando che per molti di noi, in media, avere più soldi può renderci sempre più felici.
    Ma lo studio ha anche rilevato che esisteva una “minoranza infelice”, circa il 20% dei partecipanti, la cui infelicità diminuisce con l’aumento del reddito fino a una soglia, quindi non mostra ulteriori progressi.
    Queste persone tendono a sperimentare “miserie” negative che in genere non possono essere alleviate guadagnando più soldi; il rapporto cita esempi come delusioni amorose, lutto o depressione clinica. Per loro, la “sofferenza” può diminuire man mano che il loro reddito sale a circa 100.000 dollari, ma superata questa cifra i vantaggi di un reddito ricco si assottigliano rapidamente.

    In termini più semplici, questo studio conferma che per la maggior parte delle persone redditi maggiori sono associati a una maggiore felicità. Fanno eccezione le persone finanziariamente molto benestanti ma infelici. Ad esempio, se sei ricco e infelice, più soldi non ti aiuteranno. Per tutti gli altri, più denaro era associato a una maggiore felicità in misura leggermente diversa. Una cosa che però manca nello studio è la misura temporale; ovvero per quanto tempo più soldi correlano con maggior felicità? Detto in altri termini, ci abituiamo alla ricchezza e poi quali “nuovi” problemi la ricchezza comporta? Mo money, mo problems come sostenuto da qualcuno

    Lo studio riconosce che la felicità o il benessere emotivo è una scala quotidiana che cambia per molte persone e che le persone felici non sono tutte ugualmente felici, ma sostiene che ci sono “gradi di felicità” e spesso un “tetto” per la felicità.
    Lo studio ha anche scoperto che il denaro può influenzare la felicità in modo diverso, a seconda del reddito. Tra i redditi più bassi, le persone infelici guadagnano di più dall’aumento del reddito rispetto alle persone più felici.

  • Il caso delle sorelle Genain; tra psicologia e pressioni sociali

    Sessant’anni fa, uno psicologo di nome David Rosenthal pubblicò un famoso ma ora in gran parte dimenticato studio di quattro sorelle con schizofrenia, quattro gemelle nate nel 1930. Le quattro gemelle Morlok, ribattezzate Genain per proteggere l’identità della famiglia, cognome che deriva dal greco e che significa terribile (αἶνος) nascita (γεν), erano cresciute nella stessa casa e provenivano dallo stesso uovo fecondato, ma non sembravano avere la stessa versione della malattia. Questa circostanza ha offerto a Rosenthal una rara opportunità di indagare sulle intricate influenze dell’ereditarietà e dell’ambiente, in un momento in cui si parlava di natura e educazione più come principi che si escludono a vicenda piuttosto che parti intrecciate che contribuivano al tutto.

    Una volta ventenni le quattro giovani donne hanno trascorso tre anni a metà degli anni ’50 osservate in clinica dove venivano testate, studiate e sottoposte a terapia in una sorta di laboratorio vivente dove gli infermieri prendevano appunti sulle interazioni sociali e dove “un salone di bellezza, un’edicola e un negozio al dettaglio, frequentati da ricercatori, medici e pazienti allo stesso modo”, servivano “a scopi sia investigativi che terapeutici”.

    Il gruppo di studiosi che lavorava sulle sorelle supervisionato da Rosenthal comprendeva psicologi, psicoanalisti, assistenti sociali, sociologi e un genetista. Rosenthal pubblicò “The Genain Quadruplets: A Case Study and Theoretical Analysis of Heredity and Environment in Schizophrenia” nel 1963, quando la psichiatria stessa era a un bivio e il presidente Kennedy aveva chiesto la sostituzione degli ospedali statali con forme di assistenza comunitaria.

    I ricercatori consideravano entrambi i genitori delle sorelle malati di mente, anche se Carl (il padre), che convinse sua moglie a sposarlo minacciando il suicidio, era molto più instabile. Era anche profondamente paranoico, come sua madre, forse schizofrenica, che aveva cercato di abortirlo il giorno in cui era nato, e che aveva espresso l’opinione che sarebbe stato meglio se le quattro gemelle fossero morte. Maltrattate dal padre irrazionale e tormentate dalle loro stesse crescenti delusioni, a tutte era stata diagnosticata la schizofrenia e ricoverate in clinica a circa 24 anni.

    Le gemelle hanno vissuto in una “casa degli orrori” in un microcosmo di una società patogena, diventando involontariamente l’emblema di come la malattia mentale non curata, può essere più una maschera che un’illuminazione.
    La dicotomia genetica vs ambiente con cui si confrontava Rosenthal era in gran parte falsa, risolta a livello molecolare dove tutto diventa un effetto chimico qualunque sia la sua causa. Ma le sorelle Genain si sono formate in un mondo impazzito che continuava a a scambiare tra loro i piani dell’influenza genetica e dell’ambiente. In più la società americana dell’epoca era scientificamente divisa anche sull’approccio; chi sosteneva di dover indagare solo sugli aspetti genetici ed ereditari e chi invece mirava ad un cambio di prospettiva sociale verso la malattia mentale

    Arrivò anche il momento in cui coloro che pensavano che la schizofrenia fosse una risposta sana a un mondo folle, non avevano nulla da offrire alle persone che soffrivano di una vera malattia. La psichiatria ha imparato a sue spese che trattare la società come un organismo malato che doveva essere guarito per aiutare gli individui malati era un brutale tradimento delle persone che avevano più bisogno di cure. La speculazione di Rosenthal secondo cui il trauma alla nascita, vissuto in modo diverso dalle quattro gemelle, ha contribuito alle variazioni della loro malattia regge meglio degli effetti maligni di un mondo impazzito.
    Le sorelle non hanno ricevuto trattamenti con droghe pesanti mentre si trovavano in clinica. Fu solo dopo, quando entrarono negli ospedali statali, che ricevettero farmaci antipsicotici, a cui studi di follow-up attribuirono la loro stabilizzazione a lungo termine. Potrebbe essere che la cosa che la società chiama malattia mentale fosse troppo eterogenea per essere descritta da una singola disciplina e che se la schizofrenia era ciò che la società chiamava “malattia mentale” piuttosto che una malattia organica del cervello, allora forse una disciplina valeva l’altra.

    Tre sorelle si sono diplomate al liceo. Una ha lavorato come segretaria per la maggior parte della sua vita. Si è sposata e ha avuto due figli. Quando è cresciuta, ha visitato spesso le sue sorelle. Una gestiva le entrate che le sorelle ricevevano per la pubblicazione della loro fotografia nei libri di testo di psichiatria e medicina, mentre l’ultima ha lavorato come estetista per un po’, ma la maggior parte della sua vita adulta l’ha trascorsa in un istituto. Ad oggi rimangono un esempio e un avvertimento di come genetica e ambiente siano necessariamente da trattare come complici perchè un solo sbilanciamento verso l’uno o l’altro ci rende ciechi di fronte alla sofferenza legata ad alcune patologie psichiatriche.

  • La psicologia in tasca grazie a chatGPT. Non siamo ancora pronti

    Molti si ricordano il film “The imitation game” dove un giovane Alan Turing impegnato nel decifrare il codice Enigma gettava le basi teoriche dell’intelligenza artificiale. In particolare Turing era convinto che un calcolatore potesse simulare perfettamente il funzionamento del nostro cervello tanto da poter ingannare un uomo e fargli credere che lui stesso non fosse una macchina ma un essere pensante. Il famigerato Test di Turing mira a questo; misura la capacità di una macchina di esibire un comportamento intelligente equivalente o indistinguibile da quello di un essere umano. Turing ha proposto che un valutatore umano giudichi le conversazioni tra un essere umano e una macchina progettata per generare risposte simili a quelle umane. Tutti i partecipanti sono separati uno dall’altro, non si possono vedere e il valutatore (qui la cosa si fa interessante) sa che uno dei due interlocutori è una macchina. La conversazione avviene tramite una tastiera ed un monitor o se preferite immaginatevi dei messaggi che vi arrivano sul vostro cellulare. Se il valutatore non è in grado di distinguere se il messaggio che legge è opera di un uomo o della macchina, si direbbe che la macchina ha superato il test, che si sta comportando come ci attendiamo da un reale essere umano.

    Ma anche se fossimo consapevoli che dietro certe risposte c’è una intelligenza artificiale, quanto saremmo disposti a darle credito? Dal 2015, Koko, un’app mobile per la salute mentale, ha cercato di fornire supporto alle persone bisognose. Invia un messaggio all’app per dire che ti senti in colpa per un problema di lavoro e in pochi minuti arriverà una risposta empatica – forse goffa, ma inconfondibilmente umana – per suggerire alcune strategie di coping positive. Ma lo scorso ottobre, ad alcuni utenti dell’app Koko è stata data la possibilità di ricevere suggerimenti molto più completi del solito. Quello che all’epoca non sapevano era che le risposte erano state scritte da chatGPT, il potente strumento di intelligenza artificiale in grado di elaborare e produrre testo naturale, grazie a un enorme set di addestramento di parole scritte.

    Le persone hanno cercato di automatizzare la terapia della salute mentale per 70 anni e i chatbot in una forma o nell’altra hanno fatto parte di quella ricerca per circa 60. Riconoscendo il divario tra popolazione e richiesta di supporto, gli sviluppatori di app per smartphone hanno creato migliaia di programmi che offrono una parvenza di terapia che può stare in tasca ma per molte di queste app, le prove a sostegno del loro utilizzo sono piuttosto scarse e l’incorporazione di modelli linguistici di grandi dimensioni come ChatGPT rappresenta un nuovo passo che molti trovano preoccupante. Alcuni sono preoccupati per le crescenti minacce alla privacy e alla trasparenza, o per l’appiattimento delle strategie terapeutiche a quelle che possono essere facilmente digitalizzate. E ci sono preoccupazioni per la sicurezza e la responsabilità legale; pensate a qualcuno che commette un atto estremo dopo aver condiviso per settimane le sue ansie con un chatbot di intelligenza artificiale…

    Chat GPT o Koko sono ben lungi dall’essere la prima piattaforma a implementare l’IA in un contesto di salute mentale. Da tempo l’intelligenza artificiale è stata implementata per analizzare gli interventi terapeutici e per perfezionarli in corso d’opera. Inoltre l’IA è stata utilizzata anche nella diagnosi. Numerose piattaforme, come il programma REACH VET per i veterani militari statunitensi, scansionano le cartelle cliniche di una persona alla ricerca di segnali d’allarme che potrebbero indicare problemi come autolesionismo o ideazione suicidaria. L’ultimo ruolo è però ciò che ha spaventato le persone dell’esperimento Koko: l’idea di un terapista completamente digitale che utilizza l’intelligenza artificiale per dirigere il trattamento. E’ bene infatti sapere che allo stato attuale queste app sono probabilmente alimentate dal recupero di informazione con le quali vengono più frequentemente in contatto (come se una bugia ripetuta mille volte alla fine si tramutasse in verità). Essenzialmente mentre “dialoghiamo” con loro le app navigano entro un flusso di informazioni da cui pescano dei marcatori per dirigere la conversazione verso una serie di risposte stabilite.

    Man mano che l’apprendimento automatico diventa la base di più piattaforme per la salute mentale, i progettisti richiederanno set di dati sensibili sempre più grandi per addestrare le loro IA. Non solo, anche con le app che attingono a trattamenti basati sull’evidenza, si teme che ci dirigeranno sempre di più verso le chat come chatGPT. Il problema è potenzialmente gigantesco perchè, molto semplicemente, gli individui dovrebbero ricevere la diagnosi e il trattamento più accurati ed efficaci ma l’automazione, le chat, arrivano con un enorme compromesso alle spalle: bilanciare l’approccio migliore con quello più facile da programmare.

    Nonostante tutti i potenziali benefici che l’IA potrebbe offrire in termini di accesso agli strumenti per la salute mentale, la sua applicazione alla terapia è ancora nascente, piena di paludi etiche. E dietro c’è sempre l’uomo.

  • Cosa vuol dire essere il bersaglio del “gaslighthing”?

    Se trascorri del tempo online, probabilmente sei entrato in contatto con alcuni termini psicologici senza rendertene pienamente conto. Il principale esempio è il termine “gaslighting”, che recentemente è diventato così popolare da conquistare il titolo di Parola dell’anno secondo il prestigioso dizionario Merriam-Webster.

    Il gaslighting è una forma insidiosa di manipolazione e controllo psicologico. Le vittime del gaslighting ricevono deliberatamente e sistematicamente informazioni false che le portano a mettere in discussione ciò che sanno essere vero, spesso su se stesse. Potrebbero finire per dubitare della loro memoria, della loro percezione e persino della loro sanità mentale. Accade spesso all’interno di relazioni abusive, ad esempio, qualcuno potrebbe insistere ripetutamente sul fatto che un evento non è mai accaduto, anche se è accaduto o insistere sulla nostra eccessiva suscettibilità. L’intento del gaslighting è davvero quello di creare confusione, seminare il dubbio e può essere una tattica molto coercitiva e di controllo.

    ll termine gaslighting deriva da un’opera teatrale del 1938, Gas Light, e dal suo adattamento cinematografico del 44 (un film notevolissimo con Ingrid Bergman e Joseph Cotten). Ambientato nell’élite londinese durante l’era vittoriana, ritrae un marito apparentemente gentile che usa bugie e manipolazioni per isolare la moglie ereditiera e convincerla che è malata mentalmente in modo che possa derubarla. Nella storia il marito abbassa e illumina segretamente l’illuminazione di casa alimentata a gas, ma insiste che sua moglie lo stia immaginando, facendole credere che sta impazzendo. Il gaslighting può verificarsi nelle relazioni personali o professionali e le vittime sono prese di mira precisamente al centro del loro essere: il loro senso di identità e autostima. Le persone manipolatrici che si dedicano al gaslighting lo fanno per ottenere potere sulle loro vittime, sia perché traggono semplicemente un divertimento distorto dall’atto o perché desiderano controllare emotivamente, fisicamente o finanziariamente la loro vittima.

    Un nuovo studio pubblicato su Personal Relationships discute di come si svolge il gaslighting nelle relazioni romantiche (altri contesti in cui è stato documentato includono i social media, il posto di lavoro e l’assistenza sanitaria). Lo studio in particolare esplora l’impatto psicologico sulle vittime, le motivazioni alla base del gaslighting e come si sviluppa all’interno di una relazione.

    I gaslighters (ovvero chi vuole manipolare l’altro) impiegano varie tattiche per convincere le loro vittime della loro stessa incompetenza. Queste tattiche sono spesso adattate per colpire le vulnerabilità della vittima, ad esempio: accusare i loro partner di essere paranoici, eccessivamente emotivi o pazzi quando vengono interrogati su comportamenti sospetti. Attraverso un’analisi qualitativa delle risposte al sondaggio di 65 vittime di gaslighting, i ricercatori hanno identificato conseguenze psicosociali significative, come la sensazione di perdere una parte della propria identità, sperimentare un concetto di sé diminuito e di sentirsi isolati
    socialmente. Questo isolamento potrebbe verificarsi sia durante la relazione, sia anche dopo la fine della relazione, poiché alcune vittime hanno sviluppato una profonda sfiducia nei confronti degli altri.
    Un piccolo sottogruppo di partecipanti ha anche riportato racconti di crescita post-traumatica. Questi partecipanti sentivano di aver superato e imparato dall’abuso. Tuttavia, altri soggetti hanno riferito di non essersi ripresi nemmeno anni dopo la loro esperienza.

    I ricercatori hanno anche isolato quelle che a loro avviso sono le motivazioni principali dei gaslighters ovvero evitare la responsabilità per un cattivo comportamento, come l’infedeltà e controllare il comportamento della vittima. Inoltre, lo studio ha scoperto varie fasi durante le quali si svolge il gaslighting: La fase iniziale spesso comporta un grande coinvolgimento amoroso, caratterizzato da eccessivo affetto, generosità e attenzione. Questo stabilisce un legame emotivo e fiducia, che contribuisce alla vulnerabilità della vittima.
    Successivamente, il gaslighting si intensifica, con le vittime che entrano in un ciclo di feedback che razionalizza il comportamento del gaslighter, portando a effetti psicologici negativi (incredulità, difesa e depressione).

    È importante notare che nella maggior parte dei casi, il gaslighting si verifica senza che il gaslighter pianifichi esplicitamente le proprie azioni manipolative ma cosa si può fare quando si è vittime di questo meccanismo? I ricercatori suggeriscono quanto sia importante osservare attentamente il comportamento del nostro gaslighter, le sue incongruenze, non importa quanto convincente risulti ai nostri occhi, è raro che non si sbagli mai nei giudizi. Poniamo attenzione al modo in cui il loro comportamento cambia intorno a noi e rispetto agli altri. Coinvolgi altre persone. Confidarsi con altre persone come un amico fidato o un professionista qualificato non solo ci farà sentire più leggeri, ma ci aiuterà anche ad acquisire una prospettiva necessaria a ripristinare il senso della realtà.

  • Il “Caso 1” nella storia dell’autismo

    Donald Triplett, che da bambino è stato il “Caso 1” nella storia della diagnosi di autismo e da adulto è diventato un caso di studio influente su come le persone con autismo possono trovare una piena realizzazione, è morto nei giorni scorsi nella sua casa di Forest, Mississippi a 89 anni.

    La prevalenza delle diagnosi di autismo è in aumento da decenni. Nel 2006 a circa un bambino su 110 veniva diagnosticato l’autismo mentre oggi, nel 2023, questa cifra è salita a uno su 36. Ciò che ha causato questo aumento è una questione dibattuta. Di certo è che la comprensione dell’autismo può essere fatta risalire agli eventi dell’infanzia del signor Triplett.

    Da bambino Donald sembrava vivere in un mondo separato dalla sua famiglia e dal resto della società. Non rispondeva agli altri bambini, a un uomo vestito da Babbo Natale, nemmeno al sorriso di sua madre.
    Usava il linguaggio in modo privato, assegnando inspiegabilmente numeri alle persone che incontrava e ripetendo frasi misteriose come “potrei mettere una piccola virgola o un punto e virgola” e “attraverso la nuvola oscura che brilla”. Aveva una mania per altri comportamenti ripetitivi e se qualcuno dei suoi vari rituali veniva interrotto, lanciava scoppi d’ira distruttivi. Aveva abilità che erano ugualmente sconcertanti per coloro che lo circondavano. Poteva rispondere senza esitazione al risultato della moltiplicazione di 87 per 23. Poteva cantare canzoni con un tono perfetto dopo averle ascoltate solo una volta. Girava voce che avesse calcolato il numero di mattoni della facciata del suo liceo solo guardandola.

    All’epoca era comune che i bambini con gravi problemi psicologici venissero istituzionalizzati in modo permanente. Ciò accadde anche a Donald ma dopo circa un anno, i suoi genitori hanno insistito sul fatto che volevano che tornasse a casa. Ben presto lo portarono da un medico a Baltimora di nome Leo Kanner. Il dottor Kanner aveva fondato la prima clinica di psichiatria infantile negli Stati Uniti presso la Johns Hopkins University. Inizialmente, non sapeva come descrivere le condizioni di Donald.

    In un articolo del 1943 intitolato “Disturbi autistici del contatto affettivo”, il dottor Kanner descrisse studi di casi di 11 bambini che illustravano una condizione che differiva “marcatamente e in modo univoco da qualsiasi cosa riportata finora” negli annali della psicologia.
    Con Donald come caso inaugurale, viene indicato come “Caso 1” e “Donald T.” Kanner ha abbozzato un disturbo che includeva abitudini ossessive ripetitive, eccellente memoria e incapacità di relazionarsi “in modo ordinario” con altre persone. Quel documento divenne il fondamento di quello che oggi è noto come disturbo dello spettro autistico.

    Invecchiando Donald Triplett non ha mai smesso di avere ossessioni, parlare meccanicamente e lottare per tenere una conversazione. Ma la sua vita ha preso anche una traiettoria che sarebbe sembrata inimmaginabile quando era un bambino di 4 anni istituzionalizzato.
    Si diplomò non solo al liceo ma anche al College dove studiò francese e matematica. Competenze che gli mancavano da adolescente, le ha acquisite tra i 20 ei 30 anni. Imparò a guidare, lavorò come contabile, riuscì a girare il mondo da solo. Donald Triplett aveva molti amici ma più in generale l’intera comunità lo ha accettato e supportato, anche in tempi non sospetti e questo è stato il vero valore aggiunto di cui Donald ha goduto per decenni.

  • Sono un distratto cronico o ho l’ADHD? Vademecum per adulti

    Sei solito tagliare le etichette dai tuoi vestiti? Rimpiangi conversazioni passate? Ti distrai facilmente mentre qualcuno sta parlando? Tendi ad iper-concentrarti mentre lavori a un progetto particolare? Hai davvero tanti hobby? Sogni ad occhi aperti? Dimentichi le cose?

    Non è una ricetta perfetta ma se hai risposto sempre si potresti avere un disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Sui social l’hashtag #adhd ha ricevuto più di 17 miliardi di visualizzazioni fino ad oggi. Molti presentano giovani che descrivono i loro sintomi specifici, come la sensibilità a piccoli fastidi sensoriali (come le etichette dei vestiti). Dopo aver visto questi video, molte persone a cui non era stata diagnosticata l’ADHD da bambini potrebbero chiedersi se si qualificherebbero come adulti.

    Come con la maggior parte delle condizioni psichiatriche, per l’ADHD i sintomi possono variare nel tipo e nella gravità. E molti di loro “sono comportamenti che tutti sperimentano prima o poi”, ha detto Joel Nigg, professore di psichiatria alla Oregon Health & Science University. La chiave per diagnosticare la condizione, tuttavia, è “determinare che è grave, è estremo” e sta interferendo con la vita delle persone. È anche fondamentale che i sintomi siano presenti fin dall’infanzia.

    Perché l’ADHD spesso non viene diagnosticata negli adulti? Circa il 4% degli adulti nel mondo occidentale ha sintomi sufficienti per qualificarsi per l’ADHD, ma si stima che solo uno su 10 di loro venga diagnosticato e curato. Uno dei motivi della mancanza di diagnosi negli adulti è che quando le persone pensano all’ADHD, spesso immaginano un ragazzo che non riesce a stare fermo ed è dirompente in classe, ma quei sintomi iperattivi stereotipati sono presenti solo nel 5% dei casi adulti.

    Invece, sintomi come dimenticanze, problemi di concentrazione, problemi di organizzazione e procrastinazione sono più comuni negli adulti. Come se non bastasse l’ADHD può anche essere diagnosticata erroneamente come un’altra condizione psichiatrica. Ad esempio, è comune per le persone con ADHD avere problemi con la regolazione delle emozioni; le persone possono arrabbiarsi rapidamente o avere sbalzi d’umore drammatici. Possono anche verificarsi eccessiva preoccupazione e ansia. Di conseguenza, a molti adulti potrebbe essere stata diagnosticata la depressione o l’ansia quando il problema alla radice è in realtà l’ADHD.

    Come si diagnostica l’ADHD negli adulti? Ci sono tre domande principali che uno psicologo esaminerà per determinare se hai una normale disattenzione o dimenticanza o l’ADHD: Quanti sintomi hai? Li hai avuti fin dall’infanzia? Influenzano più aree della tua vita? Una persona deve avere cinque dei nove sintomi elencati nel manuale diagnostico (DSM) per qualificarsi per l’ADHD. Questi sintomi rientrano generalmente in tre categorie: problemi di produttività o prestazioni (procrastinare il lavoro o non riuscire a finire le faccende); memoria (spesso perdere il telefono o le chiavi o dimenticare di prendere il latte mentre si torna a casa); e organizzazione degli oggetti e del tempo (avere la casa ingombra o essere sempre in ritardo). Questi sintomi devono influenzare negativamente alcune aree della vita, come il lavoro, la casa e le relazioni. Se la tua casa è un disastro, ma hai successo sul lavoro e la tua vita personale è ricca e appagante, probabilmente non ti qualificheresti per una diagnosi.

    I sintomi devono anche essere presenti da prima che tu avessi 12 anni. Agli occhi della maggior parte dei medici, l’ADHD è un disturbo del neurosviluppo, nel senso che è iniziato quando il bambino (e il suo cervello) era giovane. Molte persone non riconoscono che qualcosa non va fino a quando le esigenze e le responsabilità dell’età adulta non si sommano e i sistemi che hanno utilizzato iniziano a fallire.

    Quali opzioni sono disponibili se ti viene diagnosticata? La buona notizia è che l’ADHD è abbastanza facile da trattare, ad esempio utilizzando farmaci stimolanti, efficaci nell’aiutare le persone a sfruttare la loro attenzione. Questi farmaci possono aiutare le persone a concentrarsi senza molti degli spiacevoli effetti collaterali, come disturbi del sonno o diminuzione dell’appetito. Il vero supporto però è quello fornito dalla terapia che aiuta le persone a capire come l’ADHD influenza la loro vita quotidiana e fornisce loro strategie compensatorie.

    Indipendentemente dal piano di trattamento raccomandato, è importante prendere certi sintomi sul serio. Se non trattate, le persone con questa condizione corrono svariati rischi su moltissimi aspetti della loro quotidianità.

  • la forgotten baby syndrome ovvero perchè l’impensabile può accadere a tutti noi

    Forgotten Baby Syndrome (FBS), così viene definito il fenomeno in cui i bambini vengono “dimenticati” all’interno di un veicolo parcheggiato. Si tratta di un fenomeno in crescita costante con importanti ripercussioni per il genitore, per la famiglia e per la società. Proprio in questi giorni la cronaca riporta un caso tragico accaduto a Roma dove una bimba di 14 mesi è morta in auto.

    Ognuno di noi prima o poi si è posto la domanda: “come può accadere?!”. Le ricerche scientifiche sul tema sono molto limitate e ancor più raramente vengono analizzate le circostanze in cui tali decessi si verificano ma è bene chiarire subito che nella maggior parte dei casi questi episodi coinvolgono soggetti adulti che hanno funzionalità psichiche e cognitive perfettamente integre per cui le dinamiche che portano a dimenticarsi o ad essere inconsapevoli di aver lasciato i bambini in auto appaiono incomprensibili. Anzi, se si guarda alle caratteristiche dei singoli episodi ci si trova, quasi sempre, di fronte a genitori amorevoli che non hanno dato mai segni di instabilità o di negligenza.

    Una delle ipotesi maggiormente accreditate indica che i casi di morte di minori in seguito all’abbandono all’interno di veicoli siano da ritenersi connessi al normale funzionamento della nostra memoria di lavoro (working memory); un sistema di immagazzinamento temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato, per consentirne l’utilizzo nell’immediato (ad esempio ricordarsi indicazioni stradali, un numero civico o un numero di telefono senza poterseli appuntare), in termini più prettamente psicologici è l’interfaccia tra percezione, memoria a lungo termine e azione che sottende i processi di pensiero.

    L’efficienza della nostra memoria di lavoro dipende dall’interazione fra le informazioni ambientali che raccogliamo continuamente e le nostre memorie pregresse. Questa combinazione ci permette di agire, di pianificare e di portare avanti anche molti compiti simultaneamente, insomma è alla base dello svolgimento delle nostre “funzioni esecutive”. Proprio mentre svolgiamo queste azioni prestiamo attenzione a determinati stimoli e ne ignoriamo degli altri, a seconda di ciò su cui la nostra memoria di lavoro sta, appunto, lavorando. In compiti complessi che coinvolgono più tipi di attività mentali, le funzioni esecutive pianificano la sequenza di passaggi mentali e programmano le diverse nostre azioni, spostando il focus dell’attenzione tra le attività secondo necessità.

    Ora possiamo affermare che le informazioni sensoriali che ci raggiungono rappresentano un fattore scatenante per la performance della nostra memoria di lavoro e quindi, le informazioni raccolte e mantenute per breve tempo in essa corrispondono, in sostanza, a ciò a cui si sta prestando attenzione in un dato momento. Nei casi di decessi di minori dimenticati all’interno di veicoli, spesso la presenza del bambino non si associa (per buona parte del tragitto) con segnali sensoriali utili a richiamare l’attenzione sul bimbo. Nella maggior parte dei casi, infatti, il bambino è posizionato nel sedile posteriore e in molte circostanze dorme. Ciò coincide con l’assenza di informazioni relative alla presenza del bambino in auto. Questo dato costituisce di per sé un fattore di rischio rispetto a come funziona la memoria di lavoro anche in condizioni normali, cioè in assenza di altri fattori quali: distrattori ambientali e/o stress e/o deficit psichici.

    Dal punto di vista esecutivo, cioè quello che effettivamente facciamo, è che se le informazioni su ciò che sta accadendo nel presente non comprendono segnali della presenza del bambino, questo dato non potrà essere integrato nel processo decisionale e quindi le conoscenze pregresse, le routine, gli schemi comportamentali abituali (per es., uscire di casa e andare sul posto di lavoro) avranno la priorità. Ciò incide direttamente sulla possibilità di prevedere le conseguenze di una determinata scelta comportamentale. Ne deriva che anche la previsione delle conseguenze della scelta comportamentale (per es., parcheggiare davanti all’ufficio e chiudere l’auto) non includerà la presenza del bambino nel veicolo. Consideriamo un ultimo aspetto, aggravante. Stati anche transitori di tipo depressivo e forti tensioni legate allo stress sono riconosciuti come fattori impattanti sulla nostra memoria così come la riduzione se non la deprivazione di sonno. Il possibile mix che porta a dimenticare quel che riteniamo indimenticabile è purtroppo, molto vicino al nostro stile di vita e non fa i conti con un principio fondamentale del nostro cervello; lavorare in economia e ridurre il più possibile in numero di informazioni da analizzare.

  • Cosa ci si deve attendere dallo psicologo a scuola?

    Da diverse settimane si fa un gran parlare del ruolo dello psicologo nella scuola. Prima di tutto è importante sottolineare come l’Italia sia l’unico Paese in Europa a non prevedere nel sistema scolastico la figura professionale dello psicologo d’istituto nonostante episodi come attacchi d’ansia e autolesionismo siano sempre più segnalati tra gli adolescenti e in generale le richieste d’aiuto ricevute dalle neuropsichiatrie infantili siano esponenzialmente aumentate negli ultimi anni. Fatti di cronaca come l’aggressione subita dall’insegnante dell’istituto Alessandrini di Abbiategrasso costringono le istituzioni a rapide risposte per cui il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, dopo aver espresso la sua solidarietà alla professoressa ferita, ha dichiarato che è necessario “riflettere sull’introduzione dello psicologo a scuola”. Attualmente gli psicologi scolastici hanno contratti della durata di un anno, si susseguono, costringendo le scuole a continui turnover e impedendo ai professionisti di lavorare per un lungo periodo all’interno dello stesso contesto.

    Recentemente è stata avanzata una proposta di legge che prevede di rendere stabile la figura dello psicologo di istituto all’interno del sistema scolastico italiano ma se ciò diventasse (finalmente) realtà cosa è lecito attendersi? La scuola è un contenitore in cui i ragazzi portano tutto di se stessi, problemi, bisogni e complessità. In relazione a questo la scuola diventa un luogo focale anche per la crescita psicologica, naturalmente affiancandosi alla famiglia. Bisogna usare la psicologia nella scuola per aiutare i ragazzi ad acquisire competenze per la vita (“life skills”) ma i docenti spesso sono colti in contropiede nel rispondere a queste esigenze non avendo ne gli strumenti ne la necessaria formazione. Allora allo psicologo scolastico possiamo chiedere questo; aiutare la scuola a gestire le relazioni, a promuovere la crescita psicologica dei ragazzi, aiutare i docenti a comprendere chi hanno di fronte. Non possiamo e non dobbiamo attenderci un’intervento clinico, fornire diagnosi e stabilire un piano di intervento terapeutico non dovrebbero essere compiti dello psicologo scolastico.

    I processi psicologici in atto quotidianamente nell’ambiente scolastico hanno bisogno delle competenze specifiche di uno psicologo per essere intercettati e letti correttamente. Lo psicologo scolastico non sostituisce i servizi sanitari con cui si interfaccia ma è un professionista che ascolta e risolve situazioni prima che divengano patologia. Non sostituisce i docenti ma li aiuta e li sostiene nel loro ruolo. Questi sono compiti che dobbiamo promuovere e che sono l’ossatura di un intervento davvero efficace dello psicologo scolastico.

  • Quanto è ancora attuale la teoria dell’attaccamento?

    La teoria dell’attaccamento sembra un concetto complicato, ma quando sei un genitore a volte può ridursi a un bambino che piange e che non vuole essere separato da te. In parole povere, la teoria dell’attaccamento esplora i legami psicologici ed emotivi duraturi tra gli individui.

    Sviluppata dallo psicologo britannico John Bowlby nel 1969 e poi ampliata da Mary Ainsworth, la teoria dell’attaccamento indica un sentimento duraturo di connessione tra gli esseri umani. Bowlby ha sottolineato l’importanza di un attaccamento sicuro tra bambino e genitore (o più in generale un caregiver), proponendo fasi distinte nella formazione dell’attaccamento.

    Bowlby stava cercando di comprendere l’intensa angoscia vissuta dai bambini che erano stati separati dai loro genitori. Egli credeva che comportamenti come il pianto e la ricerca fossero risposte adattative alla separazione da una figura di attaccamento primaria che fornisce supporto, protezione e cura. La teoria dell’attaccamento sottolinea l’importanza di un attaccamento sicuro tra neonati e genitori per un sano sviluppo psicologico. La teoria dice che i bambini vengono al mondo pre-programmati per formare attaccamenti con gli altri, perché questo li aiuterà a sopravvivere. Bowlby evidenzia il ruolo dei comportamenti innati nei neonati e nei genitori, promuovendo la formazione di attaccamenti sicuri. Una base sicura fornita da un caregiver favorisce la fiducia e successivamente la stabilità emotiva nei neonati. Tuttavia, Bowlby sottolinea un periodo critico per la formazione dell’attaccamento, sottolineando che la maternità ritardata può avere conseguenze gravi e durature. Durante quei primi 12 mesi, se un bambino sperimenta la separazione dal proprio genitore (o caregiver) primario senza ricevere cure emotive sostitutive sufficienti, subirà gli effetti della privazione che portano a dei rischi futuri quali delinquenza, ridotte performance cognitive ridotta e maggiore aggressività.

    Mary Ainsworth, è un’altra figura di spicco nel campo della teoria dell’attaccamento, rinomata per il suo influente studio noto come Strange Situation. Ainsworth ha osservato i comportamenti e le reazioni dei bambini di fronte a brevi separazioni e riunioni con i loro genitori identificando tre stili di attaccamento primari: sicuro, ansioso-resistente ed evitante. Circa il 60% dei bambini nello studio ha dimostrato lo stile di attaccamento sicuro. Questi bambini erano sconvolti quando i loro genitori lasciavano la stanza, ma si consolavano facilmente quando i loro genitori tornavano. Il 20% o meno dei bambini all’inizio era a disagio dopo la separazione. Quando si sono riuniti con i loro genitori, erano difficili da calmare, dimostrando comportamenti contrastanti su come o se volevano essere confortati. Questi bambini sembravano voler punire i loro genitori per essersi allontanati. Questo stile di attaccamento è noto come resistente all’ansia. I bambini rimanenti, ovvero gli “evitanti”, non sembravano preoccupati o angosciati quando erano separati dai loro genitori. Evitavano di cercare il contatto visivo con i loro genitori e tendevano a rivolgere la loro attenzione agli oggetti di gioco disponibili all’interno dell’ambiente di laboratorio.

    Comprendere le fasi dello sviluppo dell’attaccamento è fondamentale per comprendere la progressione dei legami emotivi tra gli individui. Le fasi dell’attaccamento sono così definite:
    Fase di pre-attaccamento (dalla nascita fino a circa 6 settimane) dove i neonati sono intrinsecamente socievoli e mostrano la preferenza per i volti umani, ma le loro interazioni non sono ancora focalizzate.
    Fase di attaccamento in divenire: questa fase parte a circa 6 settimane e dura fino a quando il bambino ha dai 6 agli 8 mesi di età. Qui, i bambini iniziano a formare una preferenza per un particolare genitore, cercando la vicinanza a quella persona e mostrando un certo disagio quando sono separati.
    Fase di attaccamento netta: questa fase inizia tra 6 e 8 mesi e va fino a un periodo compreso tra 18 e 24 mesi. I bambini cercano attivamente la vicinanza al loro caregiver primario, mostrano ansia da separazione e fanno affidamento sul caregiver come base sicura da cui partire per esplorare il mondo.
    Fase di relazione reciproca: I bambini sviluppano relazioni più complesse con i loro caregiver, cercando attivamente e mantenendo la vicinanza, impegnandosi in giochi condivisi e mostrando una maggiore comprensione e comunicazione emotiva.

    Un recente articolo della Cleveland Clinic esplora i quattro principali tipi di attaccamento identificati nella teoria dell’attaccamento, facendo luce sui diversi modi in cui gli individui formano e sperimentano legami emotivi e propone questa nuova classificazione:
    Attaccamento sicuro: i bambini si sono arrabbiati quando i genitori se ne sono andati e sono stati confortati dal loro ritorno.
    Attaccamento ansioso: quando i genitori se ne vanno, i bambini diventano molto angosciati e mostrano difficoltà nel trovare conforto al loro ritorno.
    Attaccamento evitante: i bambini mostrerebbero una reazione minima o nulla quando il genitore se ne va o quanto torna, mostrando scarsa responsività a queste separazioni e riunioni.
    Attaccamento disorganizzato: questo quarto stile di attaccamento è stato aggiunto nel 1986 dai ricercatori sullo sviluppo infantile Mary Main e Judith Solomon per classificare i bambini che mostravano reazioni imprevedibili o disorganizzate alle partenze o agli arrivi dei genitori, che potevano includere comportamenti come sbattere la testa per terra o sperimentare un bloccare la risposta.

    Come indicato nella ricerca, oltre l’età dello sviluppo lo stile di attaccamento ha un forte impatto sulla capacità di sviluppare una relazione sana e reciprocamente affettuosa influenzando la comunicazione tra partner, il rischio di violenza relazionale e la qualità complessiva del rapporto.
    La ricerca mostra anche che il tuo stile di attaccamento ha un grande impatto sull’attaccamento che formerai con i tuoi figli.

  • Emergenza alluvione: il contributo della psicologia dell’emergenza

    Da giorni ormai siamo esposti alle immagini e ai racconti dai territori dell’Emilia Romagna colpiti dall’alluvione. Disastri di questa entità stravolgono la normale vita personale e sociale e proprio in questi momenti è fondamentale prestare supporto a chi vede la propria vita interrompersi in modo improvviso.

    I cittadini coinvolti vivono un’esperienza a tutti gli effetti traumatica, vedono le piccole e grandi certezze quotidiane frantumarsi, i propri beni o i propri cari in pericolo. Lo stato di allerta, paura, ansia e stress, non ha un rapido decorso e può protrarsi anche per mesi. Lo stato emotivo è completamente alterato, si hanno vissuti di angoscia, ansia e tristezza, disperazione, difficoltà a dormire, stanchezza, irritabilità o rabbia. Si tratta di reazioni che sulla carta sono funzionali a ciò che sta accadendo ma che finiscono col diventare incontrollabili e vanno attenzionate anche tramite un intervento di supporto psicologico. La psicologia dell’emergenza può essere definita come il supporto psicosociale immediato e post-immediato fornito alle vittime di traumi, ai loro familiari, alle cerchie ristrette e ai testimoni di un evento angosciante e traumatizzante. 

    in che modo interviene uno psicologo durante eventi così estremi? Innanzitutto porta assistenza alle vittime ma anche ai soccorritori, aiuta a ritrovare le forze per la ripresa della quotidianità, delle piccole cose, dei propri punti di riferimento. Aiuta a proteggere da traumi secondari, a mettere in moto le risorse, a ritrovare i propri familiari o a capire quali sono le prime necessità: in uno stato di confusione e mancanza di sicurezza, l’ascolto, l’attenzione e il conforto non vanno date per scontato e vanno quindi assicurate.

    Il lavoro svolto dagli psicologi dell’emergenza non si esaurisce con il rientrare dell’emergenza stessa ma prosegue perchè gli effetti sulla popolazione hanno un loro particolare decorso e possono essere vissuti sia a livello individuale che all’interno della comunità di appartenenza. Come in Emilia Romagna tra qualche giorno sarà il momento del lutto, della presa di coscienza della perdita, di una realtà da ricostruire. il supporto psicologico assume connotati ancora più critici che serviranno alle persone per orientarsi più su ciò che dovranno fare piuttosto che su quello che è andato perso. Per tutte queste ragioni, l‘Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna è un punto di riferimento per chi si trova a vivere momenti così intensi e drammatici. Fai riferimento a questo link per aggiornamenti sulle iniziative in corso nei territori interessati dall’alluvione.