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  • Troppo intelligenti per essere felici

    Ci sono situazioni in cui essere “troppo” intelligenti ha davvero più costi che benefici. Strano a dirsi ma è proprio così; dalla scuola, alla famiglia fino alle relazioni affettive, le persone dotate di una intelligenza superiore spesso si scoprono… “stupide”. Pochi anni fa la psicologa Jeanne Siaud-Facchin ha pubblicato un libro dal titolo “Troppo intelligenti per essere felici” e da quelle pagine ha proposto un uso aggiornato del termine plusdotazione ovvero un tipo di intelligenza non tanto quantitativamente maggiore, quanto qualitativamente differente da quello della maggior parte delle persone. Questa intelligenza non è qualcosa di cui né vantarsi né rallegrarsi, anzi, potrebbe pure essere portatrice di qualche guaio. La plusdotazione, che andrebbe “scoperta” nell’infanzia più che nell’età adulta (ma solo oggi ci sono in Italia strutture che si occupano di questo 3-5% della popolazione) si caratterizza, per esempio, con una fortissima emotività, con affettività preponderante che va di pari passo alle abilità cognitivecome se cervello e cuore fossero due stanze comunicanti, dove i rumori dell’una sono udibili all’altra tanto da condizionarsi a vicenda. Emotività, iper sensibilità e una fortissima empatia, con conseguente intolleranza verso qualunque tipo di ingiustizia (che si vive come se fosse inflitta a noi stessi) sono caratteristiche tipiche dei plusdotati, che dette così possono sembrare innocue o quasi, ma che, al contrario, sono il più delle volte causa di grandi sofferenze. La Siaud-Facchin sostiene che l’ipersensibilità gioca un ruolo chiave nella personalità del plusdotato. Abbiamo infatti a che fare con una vera e propria spugna, che in qualsiasi momento assorbe persino la più piccola particella emozionale sospesa nell’aria. La plusdotazione regala un’intelligenza che cambia il modo di percepire, comprendere e analizzare il mondo. La dimensione affettiva è una componente essenziale della personalità di questi esseri così particolari. Al punto che forse, in fin dei conti, i plusdotati pensano più con il cuore, che con la testa

    Quando parliamo di bambini i cosiddetti “gifted child” sono quei bambini con un QI superiore alla media (tra 100 e 125/130) attivi, attraenti, con buone capacità verbali. Imparano a leggere e scrivere facilmente intorno ai 7 anni e talvolta vengono addirittura considerati “dotati” dai loro insegnanti mentre sono solo bravi studenti, dediti e socievoli. Il rovescio della medaglia è che spesso, il bambino dotato (QI compreso tra 125/130 e 160) è spesso un bambino difficile che ha affrontato problemi di integrazione a scuola, cerca di evitare di farsi notare per paura di essere percepito come troppo brillante. Consapevole della propria diversità, cerca di nasconderla, non ama imparare nulla a memoria e manca di metodo o capacità organizzative, tuttavia riesce a parlare all’infinito di argomenti che lo appassionano e spesso cambia il focus dei suoi interessi. Le sue capacità motorie solitamente non sono in linea con il suo sviluppo intellettuale; la calligrafia è un problema, così come lo sono le attività sportive o manuali. I suoi risultati scolastici sono tutt’altro che soddisfacenti. Le sue pagelle dicono che “potrebbe fare di meglio”.

    Diventa sempre più rilevante poter individuare presto i bambini particolarmente dotati; i test proposti da Binet misurano l’età mentale del bambino rispetto alla sua età effettiva (in anni di vita). Un bambino dotato mostra un’età mentale compresa tra 2 e 8 anni oltre l’età “cronologica”. Un bambino di 8 anni con un QI molto alto potrebbe avere l’età mentale di un sedicenne.
    Attualmente i test più utilizzati sono quelli di Wechsler che consentono un confronto statistico. Il QI non viene più paragonato all’età cronologica ma viene misurato statisticamente ad un “QI standard” che definisce il rango del bambino rispetto ai bambini della sua età. Il QI non è più molto importante, ciò che conta è il rango, cioè il numero di individui nel gruppo di riferimento con un QI identico all’individuo testato. I test di Wechler misurano il QI fino a 160, alcuni test statunitensi vanno anche oltre. A titolo informativo, 1 persona su 31.000 ha un QI superiore a 160.

    Oltre questi strumenti comunque è importante sottolineare come non tutti i bambini dotati sono i migliori della loro classe. Tuttavia, tra i migliori alunni ci sono, naturalmente, anche molti studenti dotati, soprattutto tra le ragazze. I bambini dotati con difficoltà vengono identificati più frequentemente ed è della massima importanza che ricevano assistenza affinché possano sfruttare al meglio il loro potenziale e integrarsi nella nostra società. Ma anche i bambini dotati senza problemi apparenti hanno esigenze diverse. È fondamentale che questi bisogni vengano soddisfatti, per favorire lo sviluppo psico-affettivo e prevenire i fallimenti molto frequenti nell’adolescenza.

    È importante che il bambino venga individuato attraverso test psicometrici e poi riconosciuto e accettato per quello che è. Poiché si sente diverso, il bambino dotato perde facilmente la fiducia in se stesso. È anche una buona idea non considerare che le sue competenze siano normali (a causa del suo alto QI), ma congratularsi con lei/lui e lodarla/o come facciamo con gli altri bambini quando ottengono buoni risultati. Questi bambini sensibili hanno bisogno di sentirsi incoraggiati e sostenuti dalle loro famiglie e dagli insegnanti, come tutti gli altri bambini. La differenza sta nel fatto che il bambino dotato, considerato molto intelligente, può essere più facilmente lasciato a se stesso; gli adulti concentreranno naturalmente la loro attenzione sui bambini con difficoltà di apprendimento.

  • Cos’è il narcisismo? La scienza affronta un fenomeno ampiamente frainteso

    Chi definiresti come un narcisista? Alcune persone hanno un’idea definita o almeno pensano di aver chiara un’immagine che corrisponda o meglio ancora qualcuno, che possa essere indicato come narcisista.
    Ciononostante è probabile molti di noi abbiano incontrato un narcisista e che non assomigliasse per niente all’idea che ne avevamo. Ad esempio, si stima che fino al 6% della popolazione statunitense, soprattutto uomini, abbia avuto un disturbo narcisistico di personalità durante alcuni periodi della propria vita. E la condizione si manifesta in modi confusamente diversi. Le persone con narcisismo possono essere grandiose o disprezzare se stesse, estroverse o socialmente isolate, capitani d’industria o incapaci di mantenere un impiego stabile, cittadini modello o inclini ad attività antisociali.
    Gli psicologi notano una grande variabilità attorno ai narcisisti. Possono funzionare molto bene, con carriere di successo e vite sociali vivaci, oppure molto male. Possono (o meno) avere altri disturbi, che vanno dalla depressione alla sociopatia. E sebbene la maggior parte delle persone abbia familiarità con la versione classica (che potremmo definire “grandiosa”) del narcisismo, come quella mostrata da una persona arrogante e pomposa che brama attenzione, disturbo si presenta anche in una forma “vulnerabile”, in cui gli individui soffrono di disagio interno e fluttuazioni nell’autostima. Ciò che questi apparenti opposti hanno in comune è un’estrema preoccupazione per se stessi.
    La maggior parte degli psicologi che trattano i pazienti affermano che grandiosità e vulnerabilità coesistono nello stesso individuo, manifestandosi in situazioni diverse. Tra gli psicologi, tuttavia, molti sostengono che questi due tratti non sempre si sovrappongono. Questo dibattito ha imperversato per decenni senza trovare una soluzione, molto probabilmente a causa di un enigma: la vulnerabilità è quasi sempre presente nello studio di un terapeuta, ma è improbabile che gli individui con un alto grado di grandiosità si presentino per il trattamento.
    Le neuroscienze stanno contribuendo a una migliore comprensione del narcisismo suggerendo come la vulnerabilità sembra infatti essere il lato nascosto della grandiosità. Tra gli psicologi clinici c’è una sempre maggior tendenza ad affermare che la varietà relativamente funzionale del narcisismo include l’avere una visione positiva di se stessi e la spinta a preservare il proprio benessere. Poi c’è il narcisismo “patologico”, caratterizzato dall’incapacità di mantenere un costante senso di autostima. Coloro che soffrono di questa condizione proteggono una visione esagerata di se stessi a spese degli altri e, quando tale visione è minacciata, provano rabbia, vergogna, invidia e altre emozioni negative.

    Nella mitologia greca e poi romana, Narciso è un giovane cacciatore, ammirato per la sua ineguagliabile bellezza che disprezza molti che lo amano e lo inseguono. Tra loro c’è Eco, una sfortunata ninfa che, dopo aver fatto uno scherzo a uno degli dei, ha perso la capacità di parlare tranne che per le parole già pronunciate da un altro. Sebbene inizialmente estasiato da una voce che rispecchiava la sua, Narciso alla fine rifiuta l’abbraccio di Eco.
    Il dio Nemesi poi maledice Narciso, facendolo innamorare del proprio riflesso in una pozza d’acqua. Narciso si innamora perdutamente della propria immagine, che crede essere un altro essere bellissimo, e si sconvolge quando scopre che non può ricambiare il suo affetto.
    Negli anni ’60 e ’70 gli psicoanalisti Heinz Kohut e Otto Kernberg delinearono quello che oggi è conosciuto come il “modello della maschera” del narcisismo. Tratti come l’arroganza e l’assertività nascondano sentimenti di insicurezza e bassa autostima.
    Questa visione però ignorava ciò che tipicamente spinge i pazienti a rivolgersi alla terapia, ovvero la vulnerabilità e l’angoscia.
    Da allora, i ricercatori hanno scoperto che entrambe le dimensioni (grandiosità e vulnerabilità) del narcisismo sono legate a ciò che gli psicologi chiamano “antagonismo”, che include egoismo, falsità e insensibilità. La grandiosità è associata all’essere assertivi e alla ricerca di attenzione, mentre la vulnerabilità tende a coinvolgere il nevroticismo, l’ansia e la depressione. Il narcisismo vulnerabile si accompagna più spesso anche all’autolesionismo (che può includere strapparsi i capelli, tagliarsi, bruciarsi e comportamenti correlati che si riscontrano anche nelle persone con disturbo bipolare) e al rischio di suicidio rispetto alla forma grandiosa.

    Attualmente alcuni psicologi indicano come vulnerabilità e grandiosità esistono in relazione dinamica tra loro e fluttuano a seconda di ciò che l’individuo incontra nella vita, lo stadio del proprio sviluppo. Altri invece rifiutano l’idea che gli individui grandiosi nascondano un lato vulnerabile. Anche se le persone grandiose a volte possono sentirsi vulnerabili, tale vulnerabilità non è necessariamente legata alle insicurezze, ma che rifletta una profonda rabbia quando il loro senso di superiorità e status viene messo in discussione. In uno studio del 2017, i ricercatori hanno intervistato 23 psicologi clinici e 22 psicologi sociali e/o della personalità (che non lavorano con i pazienti) e hanno scoperto che sebbene entrambi i gruppi considerassero la grandiosità un aspetto essenziale del narcisismo, gli psicologi clinici erano leggermente più propensi a considerare la vulnerabilità come un tratto della personalità narcisistica.
    La maggior parte dei narcisisti che cercano aiuto sono generalmente più vulnerabili mentre la riluttanza a cercare una terapia è particolarmente vera per i “narcisisti maligni”, che, oltre alle solite caratteristiche, mostrano caratteristiche antisociali e psicopatiche come mentire cronicamente o provare piacere nell’infliggere dolore o sofferenza agli altri.

    Le ricerche su gemelli omozigoti e eterozigoti suggerisce che il narcisismo può essere almeno parzialmente geneticamente ereditabile, ma altri studi indicano che anche la genitorialità disfunzionale potrebbe svolgere un ruolo forse ancor più significativo. La grandiosità può derivare da genitori che hanno opinioni esagerate sulla superiorità del proprio bambino, mentre la vulnerabilità può avere origine nell’avere un genitore freddo, negligente, violento o invalidante. A complicare le cose, alcuni studi rilevano che la sopravvalutazione gioca un ruolo anche nel narcisismo vulnerabile, mentre altri non riescono a trovare un legame tra genitorialità e grandiosità.
    Molti ricercatori, tuttavia, affermano che è necessario molto più lavoro per determinare quale ruolo gioca la genitorialità. In uno studio del 2015, i ricercatori dell’Università del Michigan hanno reclutato 43 ragazzi di 16 o 17 anni e hanno chiesto loro di compilare il Narcissism Personality Inventory, un questionario che misura principalmente i tratti grandiosi. Gli adolescenti hanno poi giocato a un gioco virtuale, mentre la loro attività cerebrale è stata misurata utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI).
    Ai partecipanti veniva detto che stavano giocando con altre due persone (ma non era vero). Gli adolescenti con livelli più elevati di narcisismo grandioso si sono rivelati più attivi nella cosiddetta rete del dolore sociale rispetto a quelli con punteggi più bassi. Questa rete è un insieme di regioni cerebrali, comprese parti dell’insula e della corteccia cingolata anteriore, che studi precedenti avevano scoperto essere associate al disagio di fronte all’esclusione sociale.

    Ad oggi non si dispone di una terapia mirata e specifica per il disturbo narcisistico di personalità. Gli psicologi, tuttavia, hanno iniziato ad adattare psicoterapie che si sono rivelate efficaci in altre condizioni correlate, come il disturbo borderline di personalità. I trattamenti attualmente utilizzati includono la “mentalizzazione”, che mira ad aiutare gli individui a dare un senso sia ai propri stati mentali che a quelli degli altri, e il “transfert”, che si concentra sul miglioramento della capacità di una persona di auto-riflessione, assumere la prospettiva degli altri e regolare le proprie capacità. emozioni. Ma c’è ancora un disperato bisogno di trattamenti efficaci.

  • La mente serena dell’infermiera assassina Lucy Letby

    I crimini dell’infermiera Lucy Letby hanno scosso il Regno Unito e il mondo. Non si può pensare a niente di peggio: bambini gravemente malati, uccisi o feriti da una donna che avrebbe dovuto prendersi cura di loro.

    Alcuni sostengono che il caso di Letby sia un’eccezione, una rarità. Sebbene l’omicidio seriale sia raro, per chi lavora nel campo della ricerca sugli omicidi seriali, i crimini e le vittime di Letby sono meno sorprendenti. In molti modi, Letby si adatta al profilo del “tipico” serial killer femminile (female serial killer, FSK); analizzando i casi negli Stati Uniti, si è scoperto che in quasi il 40% dei casi le donne serial killer sono infermiere, assistenti infermieristiche o altri operatori sanitari. La FSK con buone probabilità è bianca, di aspetto mediocre o attraente, e tra i 20 e i 30 anni quando iniziano i crimini. Ha un’elevata probabilità di essere un’operatrice sanitaria, spesso incaricata di prendersi cura di coloro che sono indifesi. Coloro che le sono familiari sono a rischio, soprattutto le persone vulnerabili come i neonati e i malati. Potrebbe uccidere per denaro o potere. Potrebbe essere arrogante o a volte riservata e potrebbe aver avuto un recente problema relazionale.

    Questa rapida descrizione probabilmente si applica a molti infermieri ma altrettanto bene sappiamo che quasi ogni infermiere o professionista medico non farebbe mai del male a nessuno. Per questo gli psicologi forensi hanno creato dei profili tipici di FSK basato sulle frequenze e sulle tendenze osservate nei casi precedenti che potesse servire come punto di partenza: uno strumento statistico per indagare su sospetti reati di omicidio seriale perpetrati da donne.

    Letby però non rientra in molte delle caratteristiche di questo profilo. La maggior parte degli FSK sono sposati; Letby no. La maggior parte degli FSK non conserva ricordi dei propri crimini; Letby conservava borse con le cartelle cliniche dei pazienti e un diario con le iniziali delle vittime e le date di morte. La Letby inoltra non mostra una storia documentata di malattia mentale (cosa che si osserva in circa il 40% dei casi di FSK). Molte FSK avevano problemi con i genitori ma risulta che i genitori della Letby siano stati di supporto al punto da presenziare al suo processo ogni giorno.

    Quindi, come possiamo fare in modo che sia possibile intercettare una personalità come quella della Letby prima che inizia ad uccidere? Sembra sconcertante che gli amministratori dell’ospedale Countess of Chester dove lavorava la Letby, non siano riusciti a riconoscere i crimini di Letby dopo che i medici avevano sollevato preoccupazioni.

    Dal punto di vista psicologico abbiamo tutti uno “schema”, una struttura cognitiva, di come le persone, i luoghi e le cose operano tipicamente per aiutarci a elaborare il mondo che ci circonda. Creiamo ogni schema dalla serie di informazioni che abbiamo incontrato nelle nostre precedenti esperienze. Le prove dimostrano ripetutamente che troviamo molto difficile elaborare o credere a informazioni che non si adattano ai nostri schemi. Abbiamo uno schema per “infermiera”. Un infermiere è un custode esperto e compassionevole. Un’infermiera controlla, nutre e lenisce. “Killer” non rientra nel nostro schema di “infermiera”.

    Più in generale, abbiamo anche uno schema di genere. Giusto o no, le persone hanno un’idea preconcetta di ciò che secondo noi dovrebbe essere una “donna” e un “uomo”, sulla base dei nostri precedenti incontri e feedback. Le prove dimostrano che, nel corso della storia, le donne sono generalmente percepite come premurose, premurose e gentili. La maggior parte delle persone non è pronta a credere che una donna possa uccidere.

    Ora pensiamo a “infermiera” e a come “assassino” venga probabilmente liquidato come impossibile. I fallimenti iniziali dell’ospedale Countess of Chester ricordano ciò che è accaduto in precedenti casi di FSK. Altri serial killer ospedalieri uccisero numerose vittime indifese prima che le autorità ospedaliere si rendessero conto che le morti erano innaturali. Dopo il caso Letby, cosa possiamo fare per fermare questo tipo di omicidio, o almeno limitare il numero delle future vittime? Bisogna essere pronti e disposti a riconoscere che sta accadendo un crimine, anche se il sospetto sembra improbabile in base alle nostre idee preconcette.

    Dobbiamo essere pronti a riconoscere che, a volte, il mostro è un’infermiera dal volto benevolo, che prendeva lezioni di danza, con una famiglia modello alle spalle; una donna altrimenti normale reduce da una vacanza al mare con gli amici a Ibiza, eppure ha distrutto vite nel modo più straordinario.

  • L’arte è nel corpo dello spettatore

    Se la canestra di frutta del Caravaggio ci colpisce ma rimaniamo impassibili quando osserviamo un cesto di frutta in qualsiasi altro contesto, potrebbe essere a causa di ciò che sta accadendo nel nostro corpo. Una nuova ricerca pubblicata su Cognition and Emotion suggerisce che le sensazioni corporee non sono solo un sottoprodotto dell’impatto emotivo dell’arte, ma un percorso chiave per sperimentare qualcosa come “arte” in primo luogo.
    Nello studio che ha coinvolto 1.186 partecipanti e 336 opere d’arte, i ricercatori hanno scoperto che la forza dell’esperienza emotiva innescata da un’opera d’arte era correlata alla forza delle sensazioni corporee riportate durante la visualizzazione. Le emozioni sono state misurate utilizzando rapporti soggettivi che gli spettatori hanno indicato segnando su un disegno di una figura umana dove e come hanno provato certe sensazioni fisiche.

    Le sensazioni corporee erano correlate sia alla forza dell’esperienza emotiva che alla valutazione di un’opera come arte. Le sensazioni erano più evidenti quando i partecipanti dicevano di provare empatia (l’emozione positiva più comunemente riportata) e quando citavano esperienze emotive “toccanti” e “commoventi”.
    Le emozioni negative erano rare, ma le segnalazioni di “tristezza” erano anche collegate a esperienze “toccanti” e “commoventi”. L’arte probabilmente sfrutta meccanismi simili per farci sentire bene. Attiva il nostro sistema nervoso autonomo e nella pace e nella tranquillità di una galleria d’arte questa maggiore attività corporea ci fa sentire bene.

    I ricercatori hanno anche scoperto che la forza delle sensazioni corporee e delle emozioni era massima per le opere d’arte che ritraggono persone, in linea con la teoria secondo cui vedere le azioni degli altri può innescare effetti di rispecchiamento sensomotorio (i famosi neuroni mirror). Sebbene lo studio abbia utilizzato solo rapporti soggettivi e non abbia misurato cambiamenti fisiologici oggettivi nel corpo, i dati suggeriscono che la percezione dell’arte è un processo interocettivo: implica la consapevolezza dello stato interno del corpo. L’arte può “entrare sotto la nostra pelle” per spostare la percezione.

    Alcune forme d’arte possono aiutare a spostare sottilmente l’attenzione sui nostri corpi, a seconda della scena artistica o del soggetto, anche su regioni specifiche come il torace o il cuore, come sostenuto dalla neuroscienziata Jennifer MacCormack, che dirige l’Affect & Interoception Lab dell’Università della Virginia. Questo potrebbe quindi influenzare quanto incorporiamo il nostro corpo nella nostra esperienza emotiva. La ricerca inoltre ha collegato la percezione estetica dell’arte alla corteccia insulare del cervello, che media l’interocezione. L’arte può essere in tutto il corpo, non solo nell’occhio, di chi guarda.

  • Ricky Rubio si allontana dal basket per concentrarsi sulla sua salute mentale

    Ricky Rubio è il playmaker dei Cleveland Cavaliers, la franchigia NBA dove militava LeBron James. Solo qualche giorno fa Rubio ha annunciato la sua decisione di abbandonare per ora la sua carriera nel basket per concentrarsi sulla sua salute mentale. La decisione di Rubio arriva a poco più di due settimane dal debutto della nazionale spagnola nella Coppa del Mondo di basket.

    La Spagna è campione del mondo in carica, e Rubio, 32 anni, originario di Barcellona, si è guadagnato gli onori di MVP durante l’ultima Coppa del Mondo FIBA. Rubio in un comunicato diramato dalla Federazione Spagnola di Pallacanestro afferma di aver deciso di interrompere la sua attività professionale per prendermi cura della sua salute mentale, ringraziando il suo team NBA e la federazione spagnola per aver compreso la sua decisione. Questo atteggiamento di sostegno è fondamentale quando si affrontano problemi di salute mentale, sia nel contesto dello sport che nella vita quotidiana. La famiglia e il sostegno sociale sono elementi essenziali per un percorso di recupero e di guarigione.

    l giocatore spagnolo ha inoltre chiesto il rispetto della sua riservatezza, affinché possa affrontare questi momenti difficili con maggiore serenità e focalizzarsi sulla propria guarigione. Questa richiesta è significativa, poiché la salute mentale spesso è associata a un senso di vulnerabilità e può essere difficile condividere le proprie difficoltà con gli altri. Rispettare la riservatezza di chi sta affrontando problemi di salute mentale è essenziale per creare un ambiente di supporto e comprensione.
    Un parallelo con Simone Biles

    Il momento scelto da Ricky Rubio per prendere una pausa per affrontare la sua salute mentale coincide con il ritorno in competizione della ginnasta americana Simone Biles, che aveva deciso di fermarsi per quasi due anni a causa di motivazioni psicologiche. La Biles ha pagato il crollo nervoso a caro prezzo prima del suo momentaneo ritiro non riuscendo più a fare esercizi elementari per una ginnasta del suo calibro. Questo evento mette ulteriormente in luce come la salute mentale sia una sfida presente in diverse discipline sportive e che coinvolga atleti di livello internazionale.

    Questi episodi sono importanti anche per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo all’importanza della salute mentale nello sport. La cultura dello sport spesso enfatizza l’aspetto fisico e le prestazioni atletiche, trascurando il benessere psicologico degli atleti. In realtà, il sostegno psicologico e la cura della salute mentale possono contribuire in modo significativo al successo sportivo e alla felicità complessiva degli atleti. Questo trova un riscontro ancora più forte nei casi di Rubio e Biles, entrambi infatti sono stati presto individuati come predestinati nei rispettivi sport e hanno attraversato anni in allenamento costante

    La decisione di Ricky Rubio di affrontare i suoi problemi di salute mentale è un importante segnale di consapevolezza e di attenzione al proprio benessere. Lo sport è uno strumento potente per ispirare e motivare le persone, ma deve anche essere un veicolo di sensibilizzazione riguardo alla salute mentale. Sostenere e rispettare la scelta degli atleti di prendersi cura della propria mente è fondamentale per creare un ambiente sportivo più sano assieme ed oltre alla natura competitiva dello sport stesso.

  • Il genitore di un adolescente è un raccoglitore di rifiuti emotivo

    La psicologa clinica Lisa Damour ha pubblicato il suo ultimo best-seller, “The Emotional Lives of Teenagers”, a febbraio, una settimana dopo che il CDC (Centers for Disease Control che ha sede ad Atlanta) ha rilasciato un rapporto allarmante sulla salute mentale degli adolescenti. Tre su cinque hanno riferito di essersi sentiti “costantemente tristi e senza speranza” nell’ultimo anno, il 30% ha riferito di aver preso seriamente in considerazione il suicidio e il 13% di averlo effettivamente tentato. Le ipotesi sulle cause di questa apparente calamità per la salute mentale erano incentrate sull’uso eccessivo dei social media, sul persistente danno psicologico causato dalla pandemia e, per alcuni ragazzi, su un clima politico sempre più maligno.
    Lisa Damour, esplora da anni i mondi interiori dei giovani e, sebbene non scarti l’evidenza di un’ondata post-pandemia di ansia e disperazione tra gli adolescenti, sostiene che la crisi della salute mentale adolescenziale non finisce quando tutti gli adolescenti si sentono bene. Finisce quando gli adolescenti hanno il sostegno che meritano e sono in grado di affrontare efficacemente l’angoscia che invariabilmente dovranno affrontare.

    La Damour prende quelli che spesso consideriamo problemi da risolvere e li riformula come fatti della vita: avversità che devi solo affrontare, sentimenti negativi che non puoi necessariamente estinguere. La pandemia ha colpito le famiglie in tanti modi diversi. Ci ha lasciato piuttosto grezzi e desiderosi di trovare un posto che sembrasse facile ma lo sviluppo degli adolescenti è sempre stato una strada accidentata. Sappiamo che ci sono momenti nello sviluppo del cervello adolescenziale in cui i bambini sono particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei social media: tra gli undici e i tredici anni per le ragazze, i quattordici e i quindici anni per i ragazzi. Gran parte della disparità tra ragazze e ragazzi è determinata dallo sviluppo neurologico che viene avviato dalla pubertà e le ragazze entrano nella pubertà prima dei ragazzi. La cosa difficile tra i giovani e la prima adolescenza è che i bambini sono spesso ancora abbastanza concreti nel loro pensiero. Indipendentemente da quanto siano intelligenti, non sono sempre in grado di prendere le distanze dalle idee e considerarle da un’ampia gamma di prospettive. Ciò arriva più tardi nello sviluppo adolescenziale. Gli adolescenti, in funzione del fatto di avere cervelli più sviluppati, sono in grado di essere più scettici su ciò a cui sono esposti online, di considerare quale potrebbe essere la motivazione per un determinato post, invece di prenderlo alla lettera.
    Non è però la tipologia di social ad essere il problema quanto l’eventuale contenuto dannoso e il loro uso problematico, che consiste nel trascorrere tanto tempo online da interrompere le attività essenziali per uno sviluppo sano, come il sonno, l’attività fisica, il tempo trascorso di persona con gli amici. Quando i genitori cercano di mettere in ordine questi consigli, una cosa che possono fare non è necessariamente pensare a se stessi come contrari alla tecnologia ma padroneggiarla meglio dei ragazzi, mostrare loro un uso “adulto”.

    Da genitori di fronte a questi problemi la prima domanda è se capire si la propria figlia o figlio si porta il cellulare anche a letto, essere magari disposti a non tenerlo noi stessi a letto, la seconda domanda è cosa fanno i figli dopo la scuola, nel tempo che hanno a disposizione. La parte difficile per i genitori in questo senso è che molti di noi guardavano una quantità assurda di televisione. insomma noi stessi abbiamo spinto per essere costantemente intrattenuti ma oggi ne abbiamo perso il controllo. Gli adolescenti sono bersaglio di algoritmi che guidano la navigazione sui social e che daranno da mangiare ai figli ogni sorta di cose. Sono progettati per vedere cosa serve per convincere un adolescente a non essere in grado di andarsene.

    Altro punto importante; gli adolescenti, in particolare le ragazze, hanno bisogno di consegnare la loro “spazzatura emotiva” ai genitori.
    In generale, gli adolescenti si comportano bene per tutta la durata della giornata scolastica. Di solito, il modo in cui fanno funzionare la loro giornata scolastica è catalogare tutte le ingiustizie e le umiliazioni a cui sentono di essere state sottoposte e le salvano per raccontarci tutto una volta a casa. Questo li aiuta a essere se stessi migliori. Dopo averlo detto, l’adolescente prova un enorme sollievo; la spazzatura è sparita: l’hanno smaltita. Dobbiamo ricordare che le emozioni degli adolescenti sono molto potenti e che gli adolescenti possono essere molto impulsivi. La maggior parte delle volte, quando un adolescente dice qualcosa di duro o crudele, se ne pente non appena le parole gli escono di bocca. È estremamente utile lavorare con la consapevolezza che tutti gli adolescenti hanno due facce. Hanno il lato che può essere cattivo, impulsivo, immaturo, sgradevole ed egocentrico. E hanno un lato decente, gentile, filosofico e di larghe vedute. Il lato con cui parli tenderà ad essere il lato che si presenterà per la conversazione. Uno dei momenti più difficili nel crescere gli adolescenti è quando ti mostrano il primo lato e tu devi parlare con il secondo.

  • La cifra della felicità….

    È una domanda che accompagna tutti e che ci facciamo ciclicamente, nessuno (o quasi) escluso: il denaro può comprare la felicità? Da semplici cittadini o da grandi pensatori non giungiamo ad una conclusione condivisa, o forse desideriamo nascondere la vera risposta che abbiamo in mente…
    La maggior parte delle persone ad ogni modo è fortemente incline a pensare che la risposta alla domanda sia un grosso sì. Ora però due eminenti ricercatori, Daniel Kahneman e Matthew Killingsworth, dalle pagine di PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) provano a ribaltare il pensiero secondo cui le persone sono più felici quando guadagnano di più e affermano che la loro gioia si livella e si stabilizza quando il loro reddito raggiunge i 75.000 dollari all’anno (circa 65000 euro…).
    Questa soglia è stata inizialmente posta da Kahneman stesso, psicologo ed economista, vincitore del Premio Nobel in economia che ha individuato le basi irrazionali dietro i nostri più comuni ragionamenti finanziari. In un celebre studio del 2010 Kahneman ha concluso che (anche) il benessere emotivo aumenta con il reddito, ma non ci sono ulteriori progressi quando questo reddito annuo supera i 75.000 dollari.
    Nel 2021 però Killingsworth, condusse ricerche parallele e concluse che non era così! Il benessere sperimentato può continuare a crescere con un reddito ben oltre i 200.000 dollari. A questo punto i due hanno unito le forze per capire fino a quanti soldi all’anno dobbiamo mirare tutti per garantirci una fetta di felicità.

    Nel loro studio, Kahneman e Killingsworth hanno intervistato 33.391 adulti di età compresa tra i 18 e i 65 anni che vivono negli Stati Uniti, sono impiegati e dichiarano un reddito di almeno 10.000 dollari all’anno.
    Per misurare la loro felicità, ai partecipanti è stato chiesto di riferire sui loro sentimenti a intervalli casuali durante il giorno tramite un’app per smartphone sviluppata da Killingsworth chiamata diabolicamente Track Your Happiness.
    Lo studio ha raggiunto due grandi conclusioni: in primo luogo, che la felicità continua ad aumentare con il reddito anche nella fascia alta dei redditi per la maggior parte delle persone, dimostrando che per molti di noi, in media, avere più soldi può renderci sempre più felici.
    Ma lo studio ha anche rilevato che esisteva una “minoranza infelice”, circa il 20% dei partecipanti, la cui infelicità diminuisce con l’aumento del reddito fino a una soglia, quindi non mostra ulteriori progressi.
    Queste persone tendono a sperimentare “miserie” negative che in genere non possono essere alleviate guadagnando più soldi; il rapporto cita esempi come delusioni amorose, lutto o depressione clinica. Per loro, la “sofferenza” può diminuire man mano che il loro reddito sale a circa 100.000 dollari, ma superata questa cifra i vantaggi di un reddito ricco si assottigliano rapidamente.

    In termini più semplici, questo studio conferma che per la maggior parte delle persone redditi maggiori sono associati a una maggiore felicità. Fanno eccezione le persone finanziariamente molto benestanti ma infelici. Ad esempio, se sei ricco e infelice, più soldi non ti aiuteranno. Per tutti gli altri, più denaro era associato a una maggiore felicità in misura leggermente diversa. Una cosa che però manca nello studio è la misura temporale; ovvero per quanto tempo più soldi correlano con maggior felicità? Detto in altri termini, ci abituiamo alla ricchezza e poi quali “nuovi” problemi la ricchezza comporta? Mo money, mo problems come sostenuto da qualcuno

    Lo studio riconosce che la felicità o il benessere emotivo è una scala quotidiana che cambia per molte persone e che le persone felici non sono tutte ugualmente felici, ma sostiene che ci sono “gradi di felicità” e spesso un “tetto” per la felicità.
    Lo studio ha anche scoperto che il denaro può influenzare la felicità in modo diverso, a seconda del reddito. Tra i redditi più bassi, le persone infelici guadagnano di più dall’aumento del reddito rispetto alle persone più felici.

  • Il caso delle sorelle Genain; tra psicologia e pressioni sociali

    Sessant’anni fa, uno psicologo di nome David Rosenthal pubblicò un famoso ma ora in gran parte dimenticato studio di quattro sorelle con schizofrenia, quattro gemelle nate nel 1930. Le quattro gemelle Morlok, ribattezzate Genain per proteggere l’identità della famiglia, cognome che deriva dal greco e che significa terribile (αἶνος) nascita (γεν), erano cresciute nella stessa casa e provenivano dallo stesso uovo fecondato, ma non sembravano avere la stessa versione della malattia. Questa circostanza ha offerto a Rosenthal una rara opportunità di indagare sulle intricate influenze dell’ereditarietà e dell’ambiente, in un momento in cui si parlava di natura e educazione più come principi che si escludono a vicenda piuttosto che parti intrecciate che contribuivano al tutto.

    Una volta ventenni le quattro giovani donne hanno trascorso tre anni a metà degli anni ’50 osservate in clinica dove venivano testate, studiate e sottoposte a terapia in una sorta di laboratorio vivente dove gli infermieri prendevano appunti sulle interazioni sociali e dove “un salone di bellezza, un’edicola e un negozio al dettaglio, frequentati da ricercatori, medici e pazienti allo stesso modo”, servivano “a scopi sia investigativi che terapeutici”.

    Il gruppo di studiosi che lavorava sulle sorelle supervisionato da Rosenthal comprendeva psicologi, psicoanalisti, assistenti sociali, sociologi e un genetista. Rosenthal pubblicò “The Genain Quadruplets: A Case Study and Theoretical Analysis of Heredity and Environment in Schizophrenia” nel 1963, quando la psichiatria stessa era a un bivio e il presidente Kennedy aveva chiesto la sostituzione degli ospedali statali con forme di assistenza comunitaria.

    I ricercatori consideravano entrambi i genitori delle sorelle malati di mente, anche se Carl (il padre), che convinse sua moglie a sposarlo minacciando il suicidio, era molto più instabile. Era anche profondamente paranoico, come sua madre, forse schizofrenica, che aveva cercato di abortirlo il giorno in cui era nato, e che aveva espresso l’opinione che sarebbe stato meglio se le quattro gemelle fossero morte. Maltrattate dal padre irrazionale e tormentate dalle loro stesse crescenti delusioni, a tutte era stata diagnosticata la schizofrenia e ricoverate in clinica a circa 24 anni.

    Le gemelle hanno vissuto in una “casa degli orrori” in un microcosmo di una società patogena, diventando involontariamente l’emblema di come la malattia mentale non curata, può essere più una maschera che un’illuminazione.
    La dicotomia genetica vs ambiente con cui si confrontava Rosenthal era in gran parte falsa, risolta a livello molecolare dove tutto diventa un effetto chimico qualunque sia la sua causa. Ma le sorelle Genain si sono formate in un mondo impazzito che continuava a a scambiare tra loro i piani dell’influenza genetica e dell’ambiente. In più la società americana dell’epoca era scientificamente divisa anche sull’approccio; chi sosteneva di dover indagare solo sugli aspetti genetici ed ereditari e chi invece mirava ad un cambio di prospettiva sociale verso la malattia mentale

    Arrivò anche il momento in cui coloro che pensavano che la schizofrenia fosse una risposta sana a un mondo folle, non avevano nulla da offrire alle persone che soffrivano di una vera malattia. La psichiatria ha imparato a sue spese che trattare la società come un organismo malato che doveva essere guarito per aiutare gli individui malati era un brutale tradimento delle persone che avevano più bisogno di cure. La speculazione di Rosenthal secondo cui il trauma alla nascita, vissuto in modo diverso dalle quattro gemelle, ha contribuito alle variazioni della loro malattia regge meglio degli effetti maligni di un mondo impazzito.
    Le sorelle non hanno ricevuto trattamenti con droghe pesanti mentre si trovavano in clinica. Fu solo dopo, quando entrarono negli ospedali statali, che ricevettero farmaci antipsicotici, a cui studi di follow-up attribuirono la loro stabilizzazione a lungo termine. Potrebbe essere che la cosa che la società chiama malattia mentale fosse troppo eterogenea per essere descritta da una singola disciplina e che se la schizofrenia era ciò che la società chiamava “malattia mentale” piuttosto che una malattia organica del cervello, allora forse una disciplina valeva l’altra.

    Tre sorelle si sono diplomate al liceo. Una ha lavorato come segretaria per la maggior parte della sua vita. Si è sposata e ha avuto due figli. Quando è cresciuta, ha visitato spesso le sue sorelle. Una gestiva le entrate che le sorelle ricevevano per la pubblicazione della loro fotografia nei libri di testo di psichiatria e medicina, mentre l’ultima ha lavorato come estetista per un po’, ma la maggior parte della sua vita adulta l’ha trascorsa in un istituto. Ad oggi rimangono un esempio e un avvertimento di come genetica e ambiente siano necessariamente da trattare come complici perchè un solo sbilanciamento verso l’uno o l’altro ci rende ciechi di fronte alla sofferenza legata ad alcune patologie psichiatriche.

  • La psicologia in tasca grazie a chatGPT. Non siamo ancora pronti

    Molti si ricordano il film “The imitation game” dove un giovane Alan Turing impegnato nel decifrare il codice Enigma gettava le basi teoriche dell’intelligenza artificiale. In particolare Turing era convinto che un calcolatore potesse simulare perfettamente il funzionamento del nostro cervello tanto da poter ingannare un uomo e fargli credere che lui stesso non fosse una macchina ma un essere pensante. Il famigerato Test di Turing mira a questo; misura la capacità di una macchina di esibire un comportamento intelligente equivalente o indistinguibile da quello di un essere umano. Turing ha proposto che un valutatore umano giudichi le conversazioni tra un essere umano e una macchina progettata per generare risposte simili a quelle umane. Tutti i partecipanti sono separati uno dall’altro, non si possono vedere e il valutatore (qui la cosa si fa interessante) sa che uno dei due interlocutori è una macchina. La conversazione avviene tramite una tastiera ed un monitor o se preferite immaginatevi dei messaggi che vi arrivano sul vostro cellulare. Se il valutatore non è in grado di distinguere se il messaggio che legge è opera di un uomo o della macchina, si direbbe che la macchina ha superato il test, che si sta comportando come ci attendiamo da un reale essere umano.

    Ma anche se fossimo consapevoli che dietro certe risposte c’è una intelligenza artificiale, quanto saremmo disposti a darle credito? Dal 2015, Koko, un’app mobile per la salute mentale, ha cercato di fornire supporto alle persone bisognose. Invia un messaggio all’app per dire che ti senti in colpa per un problema di lavoro e in pochi minuti arriverà una risposta empatica – forse goffa, ma inconfondibilmente umana – per suggerire alcune strategie di coping positive. Ma lo scorso ottobre, ad alcuni utenti dell’app Koko è stata data la possibilità di ricevere suggerimenti molto più completi del solito. Quello che all’epoca non sapevano era che le risposte erano state scritte da chatGPT, il potente strumento di intelligenza artificiale in grado di elaborare e produrre testo naturale, grazie a un enorme set di addestramento di parole scritte.

    Le persone hanno cercato di automatizzare la terapia della salute mentale per 70 anni e i chatbot in una forma o nell’altra hanno fatto parte di quella ricerca per circa 60. Riconoscendo il divario tra popolazione e richiesta di supporto, gli sviluppatori di app per smartphone hanno creato migliaia di programmi che offrono una parvenza di terapia che può stare in tasca ma per molte di queste app, le prove a sostegno del loro utilizzo sono piuttosto scarse e l’incorporazione di modelli linguistici di grandi dimensioni come ChatGPT rappresenta un nuovo passo che molti trovano preoccupante. Alcuni sono preoccupati per le crescenti minacce alla privacy e alla trasparenza, o per l’appiattimento delle strategie terapeutiche a quelle che possono essere facilmente digitalizzate. E ci sono preoccupazioni per la sicurezza e la responsabilità legale; pensate a qualcuno che commette un atto estremo dopo aver condiviso per settimane le sue ansie con un chatbot di intelligenza artificiale…

    Chat GPT o Koko sono ben lungi dall’essere la prima piattaforma a implementare l’IA in un contesto di salute mentale. Da tempo l’intelligenza artificiale è stata implementata per analizzare gli interventi terapeutici e per perfezionarli in corso d’opera. Inoltre l’IA è stata utilizzata anche nella diagnosi. Numerose piattaforme, come il programma REACH VET per i veterani militari statunitensi, scansionano le cartelle cliniche di una persona alla ricerca di segnali d’allarme che potrebbero indicare problemi come autolesionismo o ideazione suicidaria. L’ultimo ruolo è però ciò che ha spaventato le persone dell’esperimento Koko: l’idea di un terapista completamente digitale che utilizza l’intelligenza artificiale per dirigere il trattamento. E’ bene infatti sapere che allo stato attuale queste app sono probabilmente alimentate dal recupero di informazione con le quali vengono più frequentemente in contatto (come se una bugia ripetuta mille volte alla fine si tramutasse in verità). Essenzialmente mentre “dialoghiamo” con loro le app navigano entro un flusso di informazioni da cui pescano dei marcatori per dirigere la conversazione verso una serie di risposte stabilite.

    Man mano che l’apprendimento automatico diventa la base di più piattaforme per la salute mentale, i progettisti richiederanno set di dati sensibili sempre più grandi per addestrare le loro IA. Non solo, anche con le app che attingono a trattamenti basati sull’evidenza, si teme che ci dirigeranno sempre di più verso le chat come chatGPT. Il problema è potenzialmente gigantesco perchè, molto semplicemente, gli individui dovrebbero ricevere la diagnosi e il trattamento più accurati ed efficaci ma l’automazione, le chat, arrivano con un enorme compromesso alle spalle: bilanciare l’approccio migliore con quello più facile da programmare.

    Nonostante tutti i potenziali benefici che l’IA potrebbe offrire in termini di accesso agli strumenti per la salute mentale, la sua applicazione alla terapia è ancora nascente, piena di paludi etiche. E dietro c’è sempre l’uomo.

  • Emergenza alluvione: il contributo della psicologia dell’emergenza

    Da giorni ormai siamo esposti alle immagini e ai racconti dai territori dell’Emilia Romagna colpiti dall’alluvione. Disastri di questa entità stravolgono la normale vita personale e sociale e proprio in questi momenti è fondamentale prestare supporto a chi vede la propria vita interrompersi in modo improvviso.

    I cittadini coinvolti vivono un’esperienza a tutti gli effetti traumatica, vedono le piccole e grandi certezze quotidiane frantumarsi, i propri beni o i propri cari in pericolo. Lo stato di allerta, paura, ansia e stress, non ha un rapido decorso e può protrarsi anche per mesi. Lo stato emotivo è completamente alterato, si hanno vissuti di angoscia, ansia e tristezza, disperazione, difficoltà a dormire, stanchezza, irritabilità o rabbia. Si tratta di reazioni che sulla carta sono funzionali a ciò che sta accadendo ma che finiscono col diventare incontrollabili e vanno attenzionate anche tramite un intervento di supporto psicologico. La psicologia dell’emergenza può essere definita come il supporto psicosociale immediato e post-immediato fornito alle vittime di traumi, ai loro familiari, alle cerchie ristrette e ai testimoni di un evento angosciante e traumatizzante. 

    in che modo interviene uno psicologo durante eventi così estremi? Innanzitutto porta assistenza alle vittime ma anche ai soccorritori, aiuta a ritrovare le forze per la ripresa della quotidianità, delle piccole cose, dei propri punti di riferimento. Aiuta a proteggere da traumi secondari, a mettere in moto le risorse, a ritrovare i propri familiari o a capire quali sono le prime necessità: in uno stato di confusione e mancanza di sicurezza, l’ascolto, l’attenzione e il conforto non vanno date per scontato e vanno quindi assicurate.

    Il lavoro svolto dagli psicologi dell’emergenza non si esaurisce con il rientrare dell’emergenza stessa ma prosegue perchè gli effetti sulla popolazione hanno un loro particolare decorso e possono essere vissuti sia a livello individuale che all’interno della comunità di appartenenza. Come in Emilia Romagna tra qualche giorno sarà il momento del lutto, della presa di coscienza della perdita, di una realtà da ricostruire. il supporto psicologico assume connotati ancora più critici che serviranno alle persone per orientarsi più su ciò che dovranno fare piuttosto che su quello che è andato perso. Per tutte queste ragioni, l‘Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna è un punto di riferimento per chi si trova a vivere momenti così intensi e drammatici. Fai riferimento a questo link per aggiornamenti sulle iniziative in corso nei territori interessati dall’alluvione.